Chi decide le competenze e i modi di pensare? Ci possono essere diverse competenze e modi di pensare che non siano quelli desiderati o imposti dalla classe di governo? Il nostro timore è che si crei una oligarchia di politici/pedagogisti/burocrati che diventi portatrice di una visione autocratica del mondo e del sapere, o meglio della comunicazione delle modalità del sapere
26 Ottobre 2014 | di Fabrizio Reberschegg
Nel documento sulla “Buona Scuola”, nella parte dedicata ai docenti su formazione e carriera nella“buona scuola” si sposa una visione della didattica e della pedagogia che lascia alquanto perplessi. Tutto ciò inserito in una prospettiva di una scuola che deve dialogare con il mercato del lavoro diventando strumento di superamento della disoccupazione diventata ormai fenomeno strutturale nell’attuale crisi economica. Agli insegnanti si chiede “che non insegnino solo un sapere codificato (più facile da trasmettere e valutare), ma modi di pensare (creatività, pensiero critico, problem-solving, decision-making, capacità di apprendere), metodi di lavoro (tecnologie perla comunicazione e collaborazione) e abilità per la vita e per lo sviluppo professionale nelle democrazie moderne”.
Dando per scontato che i docenti non siano in grado di possedere le competenze sufficienti e necessarie per insegnare modi di pensare, metodi di lavoro e abilità per la vita professionale si prospetta un vasto piano di formazione per tutti di docenti che di fatto diventerebbe obbligo di servizio. Ora i problemi che si pongono sono molto complicati. In primis che cosa significa superare il “sapere codificato”e insegnare modi di pensare? Poi, cosa significa la vita professionale nelle democrazie moderne? Infine, chi dovrebbe essere titolato a formare i docenti essendo in grado di possedere saperi e competenze per definire chiaramente i percorsi di approfondimento atti a raggiungimento di obiettivi così ambiziosi?
Nelle poche righe del documento che dovrebbero fare sintesi della cosiddetta “mission” dell’insegnante nella buonascuola si riproducono banalmente le già banali declinazioni sperimentate dai nostri riformatori scolastici traendo spunti da pedagogisti quali Vygoskij, Brunner, Dewey e Morin.
Sembra che la proposta del governo Renzi sia ancora scritta da Luigi Berlinguer che aveva chiamato Edgard Morin come consulente per la sua grande riforma della scuola. Come è noto Morin è diventato famoso nel mondo della pedagogia per aver mutuato, da Montaigne il noto motto «è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena», decostantualizzandone il significato originario. Il fatto è che i nostri politici citano troppo spesso a sproposito Don Milani e Edgard Morin senza mai averli letti facendoli diventare una sorta di icone intoccabili pena l’accusa di eresia.
Di fatto, con le scontate semplificazioni, si chiede agli insegnanti non tanto di trasmettere conoscenze e capacità,ma competenze e modi di apprendimento coniugando un sapere interconnesso e aperto alla complessità con il sapere fare inserito nel sistema economico e sociale dove si colloca l’allievo in un’ottica di breve periodo. Le riforme scolastiche degli ultimi anni hanno cercato di imporre talevisione del mondo. Il passaggio dai programmi alla certificazione delle competenze ne è l’esempio più evidente e i risultati non esaltanti sono sotto gli occhi di tutti. Se uno propone una buona scuola, dà per scontato che l’attuale scuola non sia così buona... Ma allora perché continuare a proporre le solite ricette?
Ma resta sempre il problema di fondo: chi decide le competenze e i modi di pensare? Ci possono essere diverse competenze e modi di pensare che non siano quelli desiderati o imposti dalla classe di governo? Il nostro timore è che si crei una oligarchia di politici/pedagogisti/burocrati che diventi portatrice di una visione autocratica del mondo e del sapere, o meglio della comunicazione delle modalità del sapere.
Siamo molto lontani dal concetto di democrazia che non può e deve essere omologato a quello di dittatura della maggioranza o presunta tale sostenuta da rituali sondaggi di opinione. Il nostro punto di riferimento resta e resterà l’art. 33 della Costituzione, almeno finché a qualcuno non verrà in mente di modificarlo. L’art. 33 tratta della libertà di insegnamento. E anche della libertà di pensare e proporre pensieri divergenti da quelli codificati dal potere in carica con la consapevolezza che le vere competenze si costrui-scono con i mattoni della conoscenza e del sapere, che costano spesso fatica e non possono essere ridotti a semplice gioco. Per questo è necessario riaprire un dibattito serio su tali temi senza delegarli al governo di turno e agli interessi economici che lo sostengono.
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