L’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia.
17 Febbraio 2017 | di Tomaso Montanari
Il 26 giugno di quest’anno saranno passati esattamente cinquant’anni dalla morte di Don Lorenzo Milani.
Per chi, come me, è cristiano, la persona, le parole e l’opera di Milani sono soprattutto una imitazione straordinariamente aderente della persona e dell’opera di Gesù (proprio nel senso altissimo dell’imitatio Christi). Immagino che qualcosa di simile provassero gli italiani del primo Duecento vedendo Francesco d’Assisi: un altro Cristo sulle strade del mondo.
Per tutti gli altri, Milani – e soprattutto il Milani di Lettera a una professoressa e della Scuola di Barbiana – rappresenta soprattutto un modello di scuola possibile. Un modello ben noto, di cui mi limito qua a richiamare due punti essenziali: il metodo e il fine ultimo.
Il simbolo del metodo di Barbiana è ancora lì, ed è assai tangibile: il grande tavolone di legno fatto dagli stessi scolari, anzi dai ‘ragazzi’. Didattica senza banchi, tutti intorno ad un tavolo. Un modello che non aveva niente a che fare con ciò che poi sarebbe esploso nel 1968. Le radici di questo approccio vanno cercare altrove, e cioè nella cultura altissima e nella consuetudine con la pratica accademica che don Lorenzo aveva respirato in famiglia: suo nonno era il grande numismatico Luigi Adriano Milani, il suo bisnonno il celebre filologo Domenico Comparetti. Ad aiutarlo, poi, ad orientarsi nella formazione, e ad esaminarlo circa la serietà del suo orientamento verso la conversione al cristianesimo e al sacerdozio fu Giorgio Pasquali, massimo filologo classico italiano del Novecento. È grazie a questa formazione che Milani cresce come un umanista, esattamente nel senso che lo storico dell’arte Erwin Panofsky fissa in questa formula: uno che rispetta la tradizione, ma contesta la verità. E il metodo di Barbiana non è altro che il metodo del seminario – consueto per la cultura accademica tedesca, e praticato per esempio da Pasquali e dai suoi allievi – per cui tutti gli studenti, anche le matricole, si siedono alla pari intorno ad un tavolo e lavorano insieme su un testo sotto la guida, incalzante e maieutica dell’insegnante.
Se questo era il metodo, sul fine della Scuola di Barbiana don Milani non lascia alcun dubbio: è una scuola lontana mille miglia dalla retorica neoliberista della meritocrazia («Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose» e «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali»), una scuola che punta all’alfabetizzazione di tutti («La parola è la chiave fatata che apre ogni porta»), una scuola che non mira alla creazione di «una nuova classe dirigente, ma di una massa cosciente». Una scuola il cui fine ultimo è la formazione del «cittadino sovrano di domani».
Metodo umanistico della critica storica e abilitazione all’esercizio della sovranità e della cittadinanza: non conosco una via più radicale di quella di Barbiana per l’attuazione del primo comma dell’articolo 9 della Costituzione, per cui «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca», intimamente legato all’articolo 1 secondo comma («La sovranità appartiene al popolo») e all’articolo 3, secondo comma («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese»).
Se questo è il metro, e io personalmente non ne conosco altri, come dobbiamo misurare la Buona Scuola, cioè la più stringentemente attuale prospettiva imposta alla scuola pubblica italiana?
Una risposta, desolante, giunge dall’esame di uno dei suoi decreti attuativi, quello «sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività».
L’articolo 1 chiarisce i principi e le finalità del provvedimento: «Il sapere artistico è garantito agli alunni e agli studenti come espressione della cultura umanistica ... Per assicurare l'acquisizione delle competenze relative alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del Made in Italy, le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività».
Cultura umanistica, creatività e made in Italy (rigorosamente in inglese) sarebbero dunque sinonimi: per conoscere il patrimonio culturale, la Ferrari e il parmigiano (tutto sullo stesso piano) bisogna essere creativi. Si stenterebbe a credere alla consacrazione scolastica di questo ‘modello Briatore’ se la relazione illustrativa del decreto non fosse ancora più chiara: «Occorre rafforzare ... il fare arte, anche quale strumento di coesione e di aggregazione studentesca, che possa contribuire alla scoperta delle radici culturali italiane e del Made in Italy, e alla individuazione delle eccellenze già a partire dalla prima infanzia». Insomma: fin da bambini bisogna saper riconoscere (e, inevitabilmente, desiderare) una giacca di Armani o una Maserati. E visto che si raccomanda «la pratica della scrittura creativa», la via maestra sarebbe fare il copywriter per gli spot, o scrivere concept per reality show, per rimanere alla lingua elettiva del Miur.
Quale società è prefigurata da questa idea di scuola? Una società in cui non si riesca nemmeno più a distinguere la conoscenza critica dall’intrattenimento, l’essere cittadino dall’essere cliente, il valore delle persone e dei princìpi dal valore delle ‘eccellenze’ commerciali. Una società dello spettacolo a tempo pieno, un enorme reality popolato da ‘creativi’ prigionieri di un eterno presente, senza passato e senza futuro.
L’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia. La necessaria scommessa di un umanesimo di massa è infatti quella di riuscire a praticare tutti, anche se in dosi omeopatiche, le qualità della ricerca: precisione, desiderio di conoscere e diffondere la verità, onestà intellettuale, apertura mentale. Per secoli si è creduto, a ragione, che queste virtù non servissero solo a sapere più cose, ma anche a diventare più umani: e che dunque non servissero solo agli umanisti, ma a tutti. E oggi sono il presupposto necessario perché le democrazie abbiano un futuro.
La Buona Scuola o la Scuola di Barbiana: un bivio decisivo e drammatico. Due idee opposte di scuola, due idee opposte di società, due idee opposte del futuro della democrazia in Italia.
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TOMASO MONTANARI è ordinario di storia dell’arte moderna all’Università ‘Federico II’ di Napoli. Ha dedicato libri, saggi e mostre all’arte italiana ed europea del Seicento.
Tra i suoi libri si trovano una riflessione sul ruolo della storia dell’arte nell’Italia di oggi (A cosa serve Michelangelo?, Einaudi, 2011), una riflessione sull’articolo 9 della Costituzione (Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, a cura di T. Montanari, Torino, Einaudi, 2013), una indagine sulla privatizzazione del patrimonio culturale della nazione (Privati del patrimonio, Einaudi 2015).
È vicepresidente di Libertà e Giustizia, e scrive su Repubblica.
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