L’homo distractus certamente non vincerà il Nobel, né diventerà primo ministro, se è un adulto, ma molto probabilmente resterà ignorante anche delle nozioni di base di matematica, storia e geografia se è uno studente, condannandosi a un futuro sociale e lavorativo assai faticoso.
28 Dicembre 2017 | di Fabrizio Tonello
Chiunque abbia un figlio adolescente sa che sarebbe più facile farlo camminare a piedi nudi nella neve delle Alpi il 31 dicembre che farlo staccare dal suo telefonino, sia esso un iPhone X da 1.000 euro, uscito nel novembre scorso, o un volgare Samsung Galaxy W del 2011 (ormai probabilmente reperibile solo al museo della Scienza).
Qualche settimana fa mi sono imbattuto nel libro di Tim Wu, un docente della Columbia University di New York, The Attention Merchants, e in una statistica riportata dal normalmente affidabile Economist: l’adulto medio, nei paesi industrializzati, guarda il proprio cellulare 2.600 volte al giorno. Ve lo riscrivo, per chiarezza, in lettere: duemilaseicento volte. Poiché la cifra mi sembrava eccessiva, ho iniziato a tenere un “diario digitale”, che mi proponevo di compilare per una settimana. Ecco i primi risultati.
- ore 6,30 sveglia (fornita dal mio iPhone)
- ore 6,31 aperto WhatsApp per verificare se c’erano messaggi notturni
- ore 6,35 mandata foto via WhatsApp alla persona amata
- ore 6,36 messo caffè sul gas
- ore 6,37 in attesa del caffè, aperto computer per verificare la posta
- ore 6,41 la caffettiera minaccia di esplodere mentre io leggo l’ultimo messaggio del Dipartimento che mi rovina la giornata prima ancora che sia iniziata
- ore 6,42 inizio a rispondere alle mail più “urgenti”: 23.
- ore 7,07 guardo l’ora e mi accorgo che sono passati 30 minuti e non ho ancora bevuto il caffè
- ore 7,08 faccio la doccia
- ore 7,13 mi faccio la barba
- ore 7,16 mi vesto
- ore 7,20 apro il Kindle per leggere i giornali americani
- ore 7,45 guardo sull’iPad se ci sono notifiche delle nuove serie Netflix, riprendo a leggere i giornali sul Kindle
- ore 8,30 mi stacco dal Kindle e guardo se su WhatsApp ci sono nuovi messaggi
A questo punto ho fatto le somme, scoprendo che nelle due ore dal risveglio ho passato 13 minuti in attività “non digitali” (essenzialmente perché sotto la doccia i costosi gadget elettronici si rovinano) e 107 minuti in attività on line. Ovvero, l’89,17% del mio tempo sono stato variamente collegato con il mondo esterno attraverso uno o più schermi. A questo punto ho deciso di rinunciare all’idea di tenere il diario per una settimana, cosa che probabilmente avrebbe fatto peggiorare i sintomi di dipendenza da collegamento permanente.
In realtà, questo universo di comunicazione permanente in forma scritta, visiva e sonora, è del tutto nuovo visto che l’iPhone è arrivato sul mercato poco più di dieci anni fa, il 29 giugno 2007, ma ci siamo così immersi nelle sue meraviglie da non notarlo affatto. Troviamo perfettamente logico che una famiglia di quattro persone in pizzeria abbia quattro telefonini funzionanti, che vengono ossessivamente consultati in attesa della pizza (e, per i due figli, anche dopo che la pizza è arrivata). Non sempre è stato così.
A indagare come questa bizzarra galassia senza limiti spazio-temporali si sia formato si è dedicato Tim Wu, che ne analizza la formazione fin dalle origini, ben più antiche di quanto non siano i nostri cellulari. “C’è stata un’epoca -scrive Wu- in cui per abitudine o per limitazioni tecnologiche molte parti della nostra vita come la casa, la scuola, le interazioni sociali, erano rifugi, al riparo dalla pubblicità e dal commercio. Nel corso dell’ultimo secolo, tuttavia, siamo arrivati ad accettare un modo di essere molto diverso, nel quale quasi ogni momento delle nostre vite viene sfruttato commercialmente, nella misura in cui è possibile”.
Naturalmente, si potrebbe sostenere che quando guardiamo la posta elettronica, oppure leggiamo un libro su un reader, non stiamo guardando della pubblicità ma purtroppo non è così. Prima di tutto i servizi più diffusi, come gmail, sono organicamente legati alla raccolta di dati su di noi: non è un caso se, dopo che avete fissato un appuntamento con il vostro dentista, sulla parte destra dello schermo cominciano a comparire annunci del tipo: “Vola in Croazia per avere denti perfetti a basso costo!”. Ed è ancor meno un caso se, dopo aver letto un libro sulla prima guerra mondiale, Amazon vi inonda di proposte con volumi di argomento simile: gli algoritmi dei nuovi padroni del mondo sono sempre in agguato, non vanno in vacanza a Natale, non si ammalano e non scioperano. Tutto ciò che vogliono è mantenere costante la vostra attenzione.
Tim Wu spiega che almeno dalla prima guerra mondiale in poi, gli esperti di propaganda sono coscienti del fatto che l’attenzione è una merce, come il pane, il carbone, le automobili. L’attenzione di X persone si paga: è quello che fanno gli inserzionisti pubblicitari scegliendo di vantare i meriti del loro prodotto un tempo in radio, e in televisione, adesso su Google, Facebook e Twitter.
Fin dall’inizio, scrive Wu, “la strategia vincente è stata quella di cercare di conquistare tempi e spazi in precedenza esclusi dallo sfruttamento commerciale”, come quelli della cena e del dopocena per radio e televisione (prima si chiacchierava in famiglia, si andava a teatro, o si faceva una passeggiata). Internet, cellulari e tablet si sono impadroniti anche degli spazi residui, come quelli degli spostamenti, della passeggiata all’aperto, del pranzo al ristorante e, nel caso degli Stati Uniti, anche della scuola. Centinaia di scuole americane alle prese con un calo costante di risorse, hanno infatti accettato varie forme di collaborazione con McDonald’s, Coca-Cola, Nike, Microsoft o altre aziende ansiose di proporre la loro mercanzia a dei consumatori fra gli 8 e i 18 anni. Come ben si sa, una volta conquistato il piccolo Johnny a un paio di jeans di una certa marca, neppure la terza guerra mondiale lo convincerà a passare a un brand differente.
La commercializzazione integrale della vita sarebbe grave di per sé, ma ad essa si aggiunge un problema ulteriore, particolarmente sentito a scuola: l’arrivo di quello che Wu definisce “homo distractus”, un essere umano incapace di resistere alla tentazione di consultare i propri telefonini, tablet o computer ogni pochi minuti (vedi “diario” qui sopra). L’homo distractus certamente non vincerà il Nobel, né diventerà primo ministro, se è un adulto, ma molto probabilmente resterà ignorante anche delle nozioni di base di matematica, storia e geografia se è uno studente, condannandosi a un futuro sociale e lavorativo assai faticoso. Questo è il motivo per cui la scuola va difesa ad ogni costo da quello che Roberto Casati definisce “colonialismo digitale”: distrazione e apprendimento non sono mai andati d’accordo. Ma forse il nostro ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli era troppo distratta per accorgersene, quando ha deciso che si possono portare cellulari e tablet in classe.
P.S. Non ho un account Instagram, ignoro Facebook e in questo periodo non uso Twitter, quindi il mio diario digitale non riflette che parzialmente il tempo passato on line quando si usano anche queste piattaforme.
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