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Numero 1 - Gennaio 2018
Numero 1 Gennaio 2018

Il diritto di riparare

Impariamo più storia e non cerchiamola sul web; impariamo qualche soluzioni meccanica e non guardiamo sullo smartphone per trovare alternative. La battaglia sul diritto di riparare è una delle grandi battaglie dell’illuminismo: come ricordava Kant, si tratta di togliere gli esseri umani da una condizione di inferiorità, in cui altri decidono una volta per tutte del nostro presunto bene.


28 Dicembre 2017 | di Roberto Casati

Il diritto di riparare Prima dell'estate mi è capitato un interessante episodio. A Parigi, come in molte città europee, da diversi anni esiste un sistema di bike sharing; pagando un modesto abbonamento annuale si può ritirare una bicicletta dalle apposite rastrelliere e riportarla in una qualsiasi stazione di scambio, restando entro certi tempi (mezz'ora, incrementabile grazie a vari bonus). Il segreto meglio custodito di Parigi è che la città è costruita su sette colli come Roma; i ciclisti sanno come girare intorno alle quote elevate ma prima o poi, è inevitabile, le stazioni a monte si svuotano, quelle a valle si riempiono: basta che una frazione degli utenti tratti i “Velib” come slitte. Siccome abito vicino alla cima di un colle, la mia stazione di riferimento è di solito sguarnita, il che genera piccole competizioni per accaparrarsi l'ultimo mezzo disponibile. Ecco allora l'episodio. Arrivo alla rastrelliera notando che c'è una sola bicicletta che sembra stia per essere presa da un giovane benvestito; il quale però si agita e impreca, rivolta la sella, e si allontana battendo convulsamente i pollici sul vetrino dello smartphone. La sella girata non è vandalismo, è un segnale che ci mandiamo tra utilizzatori, significa che la bicicletta ha un problema tecnico. Mi avvicino - vediamo un po' - e noto che è saltata la catena. Tutto qui? Decenni di vita lombarda, con la bici come mezzo di trasporto principale, non sono passati invano; non ci vuole nulla a infilare la mano sotto la scocca, rimettere la catena sul dente, far girare a mano i pedali con la ruota posteriore sollevata; e in venti secondi la bici è pronta per ripartire. Il mio concorrente torna verso di me con aria interrogativa e leggermente aggressiva. Quella bici sarebbe mia, l'ho vista prima io, mi apostrofa; i parcheggi intorno sono tutti vuoti, mi dice mostrandomi lo smartphone con la app cerca-bici. 
 
Insomma, avrei fatto qualcosa di trasgressivo. I Velib nella norma non vengono riparati dagli utilizzatori, se ne occupa per il momento la società JC Decaux che ha in appalto il servizio (e che oltre a manutenere manda diversi camion al giorno a spostare a monte le bici-slitte che tendono ad accumularsi a valle.) Riparare una bici in sharing è qualcosa che non si fa, nel ragionamento del mio concorrente, per il quale la bici o è riparata, o è da riparare, e se nel primo caso valgono le solite priorità, chi ci è arrivato per primo esercita un diritto, nel secondo caso quello che si deve fare è guardare sullo smartphone dove se ne può trovare un'altra.
 
Ci sono molte morali da trarre dall’episodio, alcune delle quali facilmente immaginabili. Uno, la disponibilità di tecnologia diffusa semplifica enormemente la vita, al punto da renderci incapaci di fare le cose più semplici per le quali non esiste una ulteriore soluzione tecnologica preconfezionata. Il mio concorrente non ha il riflesso di esaminare il semplice problema meccanico della catena saltata, ma ha il riflesso di guardare sullo smartphone dove si trovano delle alternative. Due, nel nuovo ecosistema di disponibilità immediata (o quasi immediata) l’istruzione e la formazione permanente ci portano verso questi lidi: non serve più imparare a riparare, ci viene detto, impara piuttosto a consultare uno smartphone per trovare alternative. Molti dei nuovi manifesti sull’educazione nell’era digitale declinano in varie salse lo stesso ritornello: a che serve imparare la storia, quando in due secondi troviamo sul web una risposta a tutte le nostre curiosità storiche? Meglio insegnare a usare il web per trovare le risposte alle curiosità storiche, che cercare di riempire la testa degli studenti di fatti che, peraltro, a loro non interessano. Quindi, meglio comprare un tablet  per studente e attrezzare la scuola con la banda larga per sostenere l’impressionante traffico di domande storiche che gli studenti invieranno sicuramente, rendendo di passaggio inutile l’insegnante. Ma per l’appunto: nessuno ha delle curiosità storiche di suo; queste vengono solo dopo aver imparato un bel po’ di storia. E lo stesso vale per qualsiasi contenuto.
 
Ma, terzo punto, c'è qualcosa di più. Per capirlo dobbiamo evocare la recente controversia, assurta a caso legale, che ha opposto i contadini americani al fabbricante di trattori John Deere. I contadini rivendicano un diritto a ripararsi da soli i loro trattori. Il diritto viene negato dal nuovo design degli automezzi, imperniato su una centralina elettronica che se da un lato semplifica l'uso, d'altro lato rende perfettamente opaca la manutenzione. Per diagnosticare un guasto si deve far parlare il computer di bordo con il computer del centro di assistenza. Nulla di nuovo sotto il sole, si dirà: da tempo la trasformazione digitale investe il mondo dell'automobile, e ancor da prima si doveva portare la propria auto ai meccanici autorizzati per ogni intervento un po' corposo, dato che erano i soli a possedere certi attrezzi forniti dai costruttori per raggiungere le viti più recondite.
Ma è anche vero che sono veramente in pochi i guidatori che vogliono mettere mano alla propria automobile. Saprei cambiare la batteria e le lampadine degli antinebbia, ma poco di più; un’auto è molto più complicata di una bicicletta. Perché tanto agitarsi per il trattore? Gli attivisti statunitensi lo dicono chiaramente: il diritto a ripararsi da soli il proprio trattore è qualcosa di molto profondo, di definitorio dell'attività agricola, fa parte dell'immagine di sé stessi che hanno i farmers. Non necessariamente un piacere, ma non tutto ciò che ci definisce dev'essere per forza piacevole. In che cosa consiste questo diritto? Otto Stati americani hanno promulgato dei decreti “Fair repair”, riparazione equa, che impongono ai costruttori di fornire dei manuali e dei pezzi di ricambio ai consumatori e alle officine meccaniche non affiliate. John Deere e, per ragioni concomitanti, Apple si oppongono tenacemente, invocando il fatto che scoperchiando il loro dispositivo i consumatori potrebbero mettere in pericolo la loro stessa sicurezza. Non è difficile vedere una collusione tra capitalismo aggressivo e paternalismo: “abbiamo creato oggetti così complicati che voi, comuni mortali, non potete riparare; solo i nostri rivenditori autorizzati possono farlo, naturalmente a caro prezzo.” Il cerchio si chiude. La battaglia dei Right-to-repair, ripresa da siti influenti come ifixit.org e dalla Electronic Frontier Foundation, è allora una delle grandi battaglie dell’illuminismo: come ricordava Kant, si tratta di togliere gli esseri umani da una condizione di inferiorità, in cui altri decidono una volta per tutte del nostro presunto bene.
Quanto al mio competitore per il Velib, mi sono limitato a pulire ostentatamente con un fazzoletto di carta le mani dal grasso della catena, ho inforcato la bicicletta e mi sono buttato nella discesa assaporando il vento della corsa.
 


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Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
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Hanno collaborato a questo numero:
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