Difficile sottrarsi alla sensazione che il dirigente scolastico sia una figura sostanzialmente fallita della nuova scuola italiana. L’alleanza tra insegnanti e dirigenti non può che essere un’alleanza stipulata in nome delle ragioni della formazione delle nuove generazioni. Forse è di questo che la scuola dovrebbe riprendere a discutere: che cosa vuol dire oggi educare un giovane che cresce in un mondo così disperatamente privo di ancoraggi culturali
26 Dicembre 2018 | di Adolfo Scotto di Luzio
Doveva essere il perno della nuova scuola disegnata dall’autonomia alla fine degli anni Novanta, nel giro di vent’anni è diventato una delle tante figure incompiute di un disegno lasciato a mezzo. Il dirigente scolastico non può scegliersi i propri insegnanti ma in compenso ha a disposizione molti strumenti per rendergli la vita impossibile. È responsabile della sicurezza ma dipende da Comuni e Città metropolitane per gli interventi su edifici scolastici spesso inadeguati e malconci. Gestisce le risorse finanziarie ma nell’ambito di vincoli di destinazione rigidamente stabiliti dal Miur. Lo si vuole leader dell’équipe pedagogica ma la sua selezione è di fatto indifferente al tipo di scuola che è chiamato a dirigere, di cui perciò non capisce i linguaggi, le modalità operative, le tradizioni didattiche sedimentate. È un dirigente dello Stato ma guadagna meno degli altri dirigenti pubblici, sebbene il suo stipendio sia molto al di sopra della media dei laureati in Italia.
È difficile, considerando questi ed altri elementi, sottrarsi alla sensazione che il dirigente scolastico sia una figura sostanzialmente fallita della nuova scuola italiana.
Non per questo, tuttavia, incapace di produrre effetti e spesso dirompenti sul tessuto già fragile del nostro sistema di istruzione. L’aspetto più rilevante dell’impatto che i nuovi presidi sono in grado di esercitare sulla scuola italiana è quello di trascinarla su di un terreno di contesa permanente. È ciò che puntualmente è accaduto in questi anni. La scuola che avrebbero dovuto rendere più dinamica di fatto è solo diventata più conflittuale. Valutati, anche finanziariamente, sulla base dei risultati e delle dimensioni degli istituti che dirigono, i presidi sono continuamente impegnati a mettersi in mostra, sul duplice fronte dell’amministrazione centrale dello Stato e dell’utenza. Di qui l’esercizio di una pressione costante sugli insegnanti perché si prestino con docilità a servire da strumenti di un progetto educativo e di sviluppo che a volte non risponde ad altro criterio che a quello della promozione personale del dirigente stesso. Di qui, anche, l’ampio ricorso a provvedimenti sanzionatori nei riguardi dei riottosi, che non sempre sono gli insegnanti più impreparati e svogliati, ma troppe volte quelli più esperti, di lungo corso professionale, portatori di una idea di scuola indisponibile a lasciarsi risolvere sul terreno dell’innovazione a tutti i costi, depositari di una concezione educativa, diciamo così, indisponibile all’arbitrio del decisore di turno.
Questo è un primo aspetto da considerare, perché l’educazione risponde a valori e a concezioni generali che non si lasciano facilmente determinare dall’ indirizzo di politica scolastica maggioritario in un dato momento. Siccome la scuola è diventata a partire dagli anni Novanta il banco di prova di un decisionismo imprudente e culturalmente infondato, il rischio del dirigente scolastico è quello di trasformarsi in una sorta di commissario politico spedito in periferia per attuare quale che siano le decisioni imposte dal centro, diventando in questo modo un vero e proprio garante del conformismo ministeriale e quasi mai un alleato del proprio collegio dei docenti.
A questo punto, il dirigente scolastico che opera nei termini appena descritti ha poche alternative. Non gli resta che spaccare la comunità insegnante in due fazioni, quelli che stanno con il dirigente e quelli che gli si oppongono, e di giocare gli uni contro gli altri costantemente. Le cronache quotidiane della scuola italiana, se fossero raccontate in maniera adeguata, rivelerebbero tutto un mondo di fiduciari, di referenti, di docenti zelanti incaricati di «riportare» al dirigente parole, malumori, resistenze dei propri colleghi.
A questo gioco non sfuggono le famiglie. Largamente disinformati, privi di competenze specifiche, quasi mai colti, padri e madri sono generalmente inclini a considerare l’innovazione pedagogica come un valore in sé. In quanto opinione pubblica, i genitori hanno profondamente interiorizzato l’idea a larga diffusione di massa di una scuola in ritardo permanente sull’ economia e sulla trasformazione del mondo del lavoro, così come appaiono largamente disponibili a considerare la panacea di tutti i mali l’inglese e la tecnologia. Il gioco del consenso è, così, molto semplice. Il dirigente che vuole avere i genitori dalla sua, interviene sul piano dell’offerta formativa potenziando l’insegnamento della lingua straniera e schierando il proprio istituto sul fronte di tutti i progetti e le sperimentazioni che prevedono, e spesso solo promettono, mirabili aggiornamenti telematici (è anche un modo per la verità di intercettare nuove dotazioni, in una scuola perennemente sotto finanziata come quella italiana). Che tuttavia tali potenziamenti avvengano in assenza di competenze effettive da parte dei docenti chiamati a ricoprire i nuovi incarichi, e che spesso comportino uno stravolgimento dell’ organizzazione del lavoro, generando buchi nell’impiego del personale, classi scoperte e così via, tutto questo sfugge, e non potrebbe essere altrimenti, alla comprensione delle famiglie. Le quali, tuttavia, vengono trascinate dentro i conflitti tra il dirigente e i suoi docenti, prendendo parte senza avere parte e, soprattutto, senza capire realmente la posta in gioco.
Di qui un clima che nella scuola italiana è diventato, negli ultimi anni, carico di tensioni e che ha finito per trasferire dentro lo spazio dell’ istituzione educativa il clima fazioso dell’ intero Paese. Insegnanti, genitori, spesso studenti, si dividono come altrettanti partiti. C’è il partito del preside, quello delle maestre, e le mamme stanno un po’ da una parte e un po’ dall’ altra. I bambini fanno la parte delle vittime, per legittimare le diverse posizioni con l’appello ricattatorio all’infanzia conculcata nei suoi diritti educativi. Quando crescono, questi bambini diventano studenti che protestano e si scagliano contro il preside sceriffo o contro il preside incapace. È successo a Roma, è successo a Napoli, succede a Milano e dappertutto in Italia.
È evidente che non si esce da questa situazione senza separare nettamente le competenze professionali della scuola dagli interessi delle famiglie e senza che si definiscano i termini di un’alleanza strategica tra insegnanti e dirigenti. È altrettanto evidente, infatti, che in questa vicenda si fronteggiano due modelli oggi ampiamente in crisi. Da un lato, la scuola assembleare degli anni Settanta, dall’altro la scuola decisionista della legge 107.
L’alleanza tra insegnanti e dirigenti non può che essere un’alleanza stipulata in nome delle ragioni della formazione delle nuove generazioni. Forse è di questo che la scuola dovrebbe riprendere a discutere: che cosa vuol dire oggi educare un giovane che cresce in un mondo così disperatamente privo di ancoraggi culturali.
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Adolfo Scotto Di Luzio insegna Storia della pedagogia, Storia delle istituzioni scolastiche ed educative e Letteratura per l'infanzia nell'Università di Bergamo. Si è occupato a lungo di storia del fascismo e, in particolare, della costruzione del suo apparato culturale e anche di storia delle istituzioni culturali e della scuola (con un'attenzione mai smessa per l'editoria e la stampa).
Ha pubblicato diversi volumi, tra cui ricordiamo, per il Mulino, «Il liceo classico» (1999), «La scuola degli italiani» (2007) e «Napoli dei molti tradimenti» (2008), «Senza Educazione. I rischi della scuola 2.0» (2016); per Bruno Mondadori «La scuola che vorrei» (2014).
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