Lo studio della storia non può guarire la specie umana dai suoi difetti e mettere la parola fine ai suoi errori. Ma ha una funzione decisiva nel combattere la smemoratezza degli individui e le deformazioni interessate di chi semina errori e inganni a scopo di potere.
26 Dicembre 2018 | di Adriano Prosperi
A che serve la storia? La domanda se la fece il maggior storico del secolo scorso, Marc Bloch nel terribile anno 1943 mentre, combattente della Resistenza francese e ricercato come ebreo, cercava di rispondere in modo piano e sereno a una grande angoscia collettiva: quella di chi davanti alla tragedia del mondo si chiedeva a che cosa servisse l’esplorazione della storia se non riusciva a evitare il ripetersi del disastro di una guerra spaventosa unito a quello della persecuzione razziale . La sua risposta prese forma in un libro bellissimo, rimasto incompiuto dalla cattura e dall’esecuzione capitale dell’autore. Vi riconobbe che, quand’anche fosse stata del tutto inutile, la storia aveva il grande merito di essere attraente . Alla sua radice, c’era la curiosità, il piacere intellettuale della conoscenza. Ma quelli erano tempi poco adatti all’esercizio di una cultura come sereno arricchimento dello spirito nel distacco dai problemi del mondo. Per questo Bloch, pur riconoscendo che lo studio e la conoscenza della storia erano fonte inesauribile di diletto intellettuale, insistette sul severo carattere di scienza del sapere storico: la definì “scienza degli uomini nel tempo.” Un sapere al quale si avvertiva la necessità di rifarsi proprio in quel momento drammatico in cui la specie umana metteva in pericolo la sua sopravvivenza e quella dei principi fondamentali della vita collettiva.
Oggi la domanda di allora si ripresenta in un mondo diverso. Quella prova estrema è stata superata, è alle nostre spalle. Nel tempo da allora trascorso l’eco dello smarrimento e l’ansia del fare i conti con la storia si è avvertito nell’intenso lavorio storiografico del secondo ‘900. Dopo Auschwitz e Hiroshima era indispensabile prendere atto che c’era stata una profonda crisi delle culture europee: tutto il patrimonio del sapere scientifico e tecnologico ma anche quello del pensiero filosofico e storico era stato deviato e investito in un progetto di dominio del mondo e nella legittimazione del nazionalismo e del razzismo. La ricerca della verità storica sul passato recente ma anche sui secoli e millenni precedenti, ha animato la cultura dell’Italia repubblicana, impegnata a cancellare le false verità della capillare propaganda del regime fascista e la retorica risorgimentista ma anche ad aprire nuovi cantieri di ricerca. L’accertamento della verità ha posto davanti alla necessità di scoprire e studiare fonti storiche nuove capaci di rispondere a domande che per la prima volta riguardavano ambiti come la condizione delle donne, le classi subalterne, i popoli ex-coloniali, l’ambiente e il clima, gli animali, i sentimenti e così via. Nel rifare i conti col passato si è imposto uno stile asciutto e severo ma anche una attenzione speciale agli usi del falso . Non è stata una vicenda pacifica. Proprio la nuova importanza assunta dal sapere storico come ricerca del vero ha fatto nascere forti ostilità da parte dei poteri di stati, chiese, partiti, aziende, esposti alla delegittimazione di scoperte sgradite e ha suscitato reazioni di ritorno dell’irrazionalismo e dell’idealismo del primo ‘900 che hanno tentato di assimilare la storia al romanzo, eliminando così la caratteristica fondamentale della storia come sapere positivo, la ricerca della verità di fatto.
Oggi viviamo in un presente in cui nel nostro paese la crisi delle battaglie politiche e delle lotte sociali si riflette nella crisi intellettuale e investe direttamente la ricerca della verità storica. Uno storico ha scritto di recente: “L’Italia è ingorgata di scemenze e ha fretta di lasciarsi alle spalle la storia” (M.Battini, Necessario illuminismo, Roma 2018, p.IX). E ha aggiunto: «Il problema della verità è anche un problema politico, perché investe modi e procedure della formazione, della costruzione, della manipolazione dell’opinione pubblica nonché , soprattutto, le insidie portate all’autonomia di giudizio dei cittadini». Non solo l’Italia, ma il mondo intero è percorso da inquietudini profonde. La guerra, le divisioni tra stati e culture, l’odio di razza sono ancora all’ordine del giorno mentre la violenza dello sfruttamento del pianeta mette in forse la sopravvivenza della specie. Si direbbe che la storia non ci ha insegnato abbastanza. Ed è obbedendo allo scetticismo nei suoi riguardi che un ministro italiano ha deciso di cancellarla dai saperi necessari per superare l’esame di maturità. Sarebbe sbagliato sottovalutare l’importanza negativa di questa decisione. Essa rappresentare quasi il colpo di grazia per la conoscenza storica, un’ospite già da tempo precaria e trascurata nel contesto generale.
A ben guardare, l’esame di maturità è la versione moderna di un rito antico: quello della prova che il giovane deve superare quando è giunto il momento di diventare adulto, uscire di minorità. E per l’umano moderno è stato Immanuel Kant a racchiudere in una formula l’uscita di minorità : “sapere aude”, abbi il coraggio di sapere. Su questo si deve fondare la scuola: la sua ragion d’essere consiste nell’accendere la volontà di sapere, stimolarla, indirizzarla verso i percorsi della scienza, farla diventare la regola della persona adulta la quale non pratica riti magici per fare buona caccia ma usa la sua intelligenza per informarsi, costruire il suo rapporto con la realtà attraverso il sapere. Per lui non sarà la memoria orale della tribù a guidarlo ma la conoscenza storica del mondo dove si trova a vivere. E’ nel rispondere all’ imperativo kantiano che la scuola è diventata la spina dorsale del paese Italia come l’ha definita di recente Alberto Asor Rosa: eravamo un volgo disperso, superstizioso e analfabeta nell’800, eppure la nascita della scuola come obbligo per tutti gli italiani e la strutturazione di livelli preuniversitari e percorsi di laurea hanno creato un paese dove dalla scuola cominciarono a uscire dei premi Nobel e - soprattutto – un popolo consapevole e maturo.
Oggi quella scuola è incerta, depauperata di senso di sé ancor più che di riconoscimento sociale e di mezzi finanziari. Non il pane della scienza ma l’aria fritta dell’opinione costituisce il pasto quotidiano che il capitalismo finanziario offre al popolo. Al vento mutevole dell’opinione si muovono come banderuole non solo gli elettori al momento del voto ma anche chi, eletto a governarli, interpreta la sua funzione come l’occasione per allargare la sua base elettorale cercando il consenso dei più invece di indirizzare il funzionamento delle istituzioni e della cultura pubblica verso l’obbiettivo dell’innalzamento del livello di sapere diffuso. Così, in una democrazia debole e in un popolo schiavo della sua ignoranza – moltiplicata e mascherata da potentissimi apparati elettronici che gli danno informazioni ma non cultura - trovano alimento regressioni civili che non avremmo mai potuto immaginare possibili. Un solo esempio: e’un’opinione che i vaccini siano pericolosi; è una certezza fondata su un preciso percorso storico e scientifico che il pericolo vero per la vita dei bambini e degli adulti sono le epidemie. Fu solo grazie all’imposizione per legge dell’obbligo vaccinale nel 1892 che un popolo superstizioso e ignorante poté cominciare a uscire dalla morsa micidiale delle epidemie e dalla strettoia demografica dell’altissima mortalità infantile. Di recente lo ha ricordato a tutti la scienziata Elena Cattaneo, senatrice a vita per meriti scientifici: si è appellata alla storia per far presente che la vaccinazione è l’unico mezzo per salvare l’umanità da epidemie che accumulano piano piano le loro micidiali batterie ma una volta scoppiate impiegano anni prima di spegnersi. Del resto, anche dal punto di vista materiale e organico l’essere umano è fatto di tempo. Nel tempo cambiano non solo gli ambienti e i modi del vivere ma anche i corpi, anche i nostri geni.
C’è un consumo di storia fatto di celebrazioni e commemorazioni. Quella della prima guerra mondiale, che si vorrebbe sostituire come grande festa nazionale alla celebrazione del 25 aprile è una di quelle operazioni sulla memoria pubblica che hanno una violenta radice ideologica. Ma a che serve ricordare se non si cerca di capire per quali errori umani è scoppiata quella guerra e per quali errori al momento della pace seguita a quel 4 novembre furono create le premesse perché ne scoppiasse una seconda, più micidiale della prima? E gli esempi si potrebbero moltiplicare. E ’dallo studio della storia che si è imparato a riconoscere i terribili errori compiuti dalla nostra specie quando alcune potenze hanno soggiogato e distrutto popoli interi e quando ha preso forza la credenza nella stregoneria o l’antisemitismo nazifascista. Lo studio della storia non può guarire la specie umana dai suoi difetti e mettere la parola fine ai suoi errori. Ma ha una funzione decisiva nel combattere la smemoratezza degli individui e le deformazioni interessate di chi semina errori e inganni a scopo di potere. Stati e religioni hanno alimentato nei secoli diffidenze e ostilità nei confronti di “altri” stati e religioni o confessioni religiose concorrenti. Anche qui è toccato a una ricerca storica libera da presupposti accertare dati di realtà facendosai strada in mezzo alle passioni di parte e alle deformazioni della propaganda. Che non sono venute meno. Oggi, mentre l’evoluzione dei mezzi di comunicazione ha portato a rendere possibile l’unificazione del globo, restano ancora divisioni profonde. Distinguere vero da falso e finto richiederebbe il ricorso a una vaccinazione di razionalità e di cultura storica e politica che intanto sembra languire o venire meno del tutto. Anche se l’informazione a mezzo stampa e “media” sarebbe in grado di aggiornare in tempo reale la popolazione mondiale sugli affari del genere umano, l’effetto unificante delle agenzie giornalistiche viene contrastato dalle potenti agenzie di disinformazione con la diffusione delle “fake news”. Ecco perché ancora una volta la ricerca storica sul tempo presente può svolgere un ruolo fondamentale accertando i dati di fatto e offrendo analisi approfondite che nessun servizio giornalistico può dare.
Ma qui bisogna chiederci perché, se tutto questo è vero, si registra la perdita di importanza dell’insegnamento della storia: un fenomeno diffuso, recepito da una classe politica ignorante, incolta e pronta a tutto pur di catturare voti. Anche ad abolire l’obbligo vaccinale. Così quel vaccino della mente che era l’insegnamento della storia è apparso un peso inutile e il solito colpo all’esame di maturità – una riforma che non costa niente e che cattura sempre l’attenzione e il favore di milioni di famiglie - ha declassato il ruolo degli insegnamenti storici. Ebbene, anche in questo caso è all’analisi storica del presente che dobbiamo rivolgere la domanda. E ’lei che può dimostrare la sua utilità aiutandoci a capire il perché di questo mutamento profondo della cultura generale e specialmente di quella del nostro paese, che ha una lunghissima e alta tradizione storiografica: una tradizione che si è rinnovata nel secondo dopoguerra con la ricchezza straordinaria di ricerche innovative e di intensi dibattiti su come inseguire la verità storica e raffinare tecniche e strumenti di ricerca. Eppure da qualche tempo l’interesse per la conoscenza storica appare in via di declino, mentre invece cresce il consumo di letteratura di invenzione e di immagini capaci di portare lo spettatore in mondi di fantasia (tv, cinema, video-cellulari). Riassumiamo schematizzando in tre parole:
1) Immagini: si guarda ma non si legge; si digita ma non si scrive; ci si informa e si consulta via internet, ma non si studia. La cultura si trasforma così in un sapere anonimo, puntiforme e disgregato, raccolto non sfogliando uno o più libri ma digitando uno smartphone. Quanti studenti contestano il racconto dell’insegnante con la frase – “E’vero, l’ha detto Internet”? La rivoluzione informatica ha trasformato la natura del sapere da conquista lenta e faticosa a merce immediatamente disponibile, come un passaggio dalla lenta cottura del cibo nella cucina di famiglia al “fast food” anonimo e globalizzato. Così si guadagna molto in efficienza e rapidità, ma si perde la natura profonda, storica e autoriale del sapere come conquista nel tempo, prodotto di ricerche , oggetto di scontri e dissensi.
2) Lavoro: rispetto al sapere come funzione sociale, quello che una volta garantiva autorevolezza e responsabilità personale a chi possedeva un livello professionale o tecnico (dall’operaio specializzato al magistrato) oggi si è trasformato in una abilità pronta a funzionare a comando. Si cercano persone addestrate a compiere mansioni ripetitive, esecutori obbedienti che fanno cose di cui non conoscono il senso. Nel lavoro non c’è lo sviluppo nel tempo che si chiamava carriera, ma solo il mordi e fuggi, l’oggi qui e domani là, da un call-center a una pizzeria . La vita appare sempre più una somma di momenti slegati, uno “scialo di triti fatti”, dove non c’è progetto (famiglia, figli etc.). Il guadagno non è la funzione derivata del lavoro ma il prodotto casuale di un impegno che nasce e muore, di un gioco d’azzardo o di un investimento finanziario . La rivoluzione del neocapitalismo finanziario o neoliberismo ha cancellato le fabbriche e svuotato di senso le scuole, perché ha frammentato la durata temporale in una somma di attimi e ha fatto delle diverse stagioni della vita umana una successione di istanti in un eterno presente, senza passato e senza futuro.
3) Identità: e così al posto della storia come durata di popoli, di saperi, di vite umane nel tempo, si è sostituita una costruzione fittizia, scintillante come un cristallo ma come il cristallo fragile e tagliente. Si appartiene a un’identità, che ci giunge dall’essere nati qui e ora. E’ un patrimonio di sangue che dobbiamo difendere dalla minaccia di inquinamenti, di gente da fuori portatrici di identità altre. Naturalmente l’occasione è ghiotta per chi nel vuoto di esistenze atomizzate in cerca di senso intuisce la possibilità di successo personale, di ricchezze e di potere, manovrando leve di grande efficacia – appunto, quei mezzi di comunicazione diventati strumenti di fascinazione collettiva che vendono emozioni e sostituiscono alla società di classi in lotta una folla anonima, deprivata di beni materiali e di cultura, pronta a farsi calamitare dall’imbonitore di turno, dall’uomo di successo perché straricco o perché duro e violento ma rassicurante nel promettere quello che non può dare – sicurezza e significato all’esistere.
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Adriano Prosperi
E' professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. È membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei. I suoi principali interessi di studio hanno riguardato la storia dell’Inquisizione romana, la storia dei movimenti ereticali nell’Italia del Cinquecento, la storia delle culture e delle mentalità tra Medioevo ed età moderna. Ha scritto per le pagine culturali del “Corriere della Sera” e de “Il Sole 24 Ore”, ha collaborato con “la Repubblica”.
Tra i suoi libri: Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (Torino 1996, Premio Nazionale Letterario Pisa per la Saggistica); Il Concilio di Trento e la Controriforma (Trento 1999); America e apocalisse e altri saggi (Pisa 1999); Il Concilio di Trento: una introduzione storica (Torino 2001); L’Inquisizione romana. Letture e ricerche (Roma 2003); Storia del mondo moderno e contemporaneo (con P. Viola, Torino 2004, 6 voll.); Dare l’anima. Storia di un infanticidio (Torino 2005); Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine (Torino 2008, Premio Viareggio per la saggistica); Cause perse. Un diario civile (Torino 2010); Eresie e devozioni. La religione italiana in età moderna, vol. I: Eresie; vol. II: Inquisitori, ebrei, streghe, vol. III: Devozioni e conversioni (Roma 2010); Il seme dell’intolleranza. Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492 (Roma-Bari 2011); Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana. XIV-XVIII secolo (Torino 2013, ed. riveduta Torino 2016); La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento (Torino 2016); Identità. L’altra faccia della storia (Roma-Bari 2016); Lutero. Gli anni della fede e della libertà (Milano 2017).
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