Il linguaggio ci consente di respingere gli automatismi, a cominciare da quelli dettati dai nostri istinti. Possiamo dire “no” agli impulsi ma possiamo dire “Preferirei di no” anche al capoufficio, come Bartleby lo scrivano di Melville Possiamo dire “no” alla famiglia, al gruppo, alla società in cui siamo immersi. Possiamo dire “no”, ai presidi, ai sindaci, ai ministri, ai poliziotti, ai soldati. Possiamo dire “no” anche agli algoritmi che si sono impadroniti delle nostre vite. Soprattutto, saremo chiamati a dire no al conformismo, alla passività, all’accettazione del disumano. Saremo chiamati a resistere contro chi viola la Costituzione tutti i giorni, e se ne vanta.
26 Dicembre 2018 | di Fabrizio Tonello
I neogenitori si deliziano dei balbettii della prole e, in una vertigine di orgoglio parentale, immaginano volentieri che il pupo abbia detto come prima parola comprensibile “mamma” o “papà”. All’istante, nonne e zie sono convocate per ascoltare i suoni inarticolati del bimbo, un protolinguaggio che appare come un certificato di ingresso nel mondo dei grandi. Purtroppo per loro, gli studi di psicologia infantile dimostrano che la prima vera parola detta sapendone il significato è “no”.
A confronto con gli altri mammiferi, veniamo alla luce prematuri di circa 21 mesi: i vitelli o i cerbiatti camminano a fianco della madre subito dopo il parto. I gattini sono ugualmente autonomi dopo pochi giorni. Diventiamo veramente umani dopo un lungo periodo di allattamento e assistenza, quando possiamo comunicare con i genitori attraverso la parola. Come scrive il filosofo francese Jean-Michel Besnier, nei bambini “l’umanità sembra sorgere con il rifiuto. Saper dire “no” significa affermare di colpo che il mondo non può imporsi all’essere umano senza che questo inizialmente gli resista”.
Il “no” mette in luce la nostra umanità, il tentativo di staccarsi da una natura che vuole imporci le sue regole sotto forma di istinti. Non possiamo sottrarci alla necessità di bere, nutrirci, riprodurci, ma possiamo cercare forme diverse per soddisfare questi bisogni, possiamo agire in gruppi invece che da soli, sottrarci all’obbedienza immediata, costruire soluzioni diverse. Dire “no” significa rifiutare di accettare che le cose siano come siano, un potere immenso, che troppo spesso dimentichiamo. Elefanti, leoni, tigri, lupi, cani, gatti possono fare molte cose che noi non possiamo fare, sono più resistenti di noi, più capaci di sopravvivere in ambienti ostili: quello che non possono fare è dire “no”.
Noi possiamo fare quest’atto sovversivo perché possediamo il linguaggio, ciò che George Steiner ha definito “lo strumento privilegiato grazie a cui l’uomo rifiuta di accettare il mondo com’è”. Il linguaggio è la nostra unica vera arma di sopravvivenza: non possiamo volare, corriamo piano, siamo senza pelliccia, le nostre unghie non valgono nulla e, da soli, saremmo facile preda di qualsiasi carnivoro. Se, dopo due milioni di anni, siamo ancora qui, a scapito delle altre specie, è perché il linguaggio ci consente di non essere mai soli: homo sapiens è una specie cooperativa e domina il pianeta per questo motivo.
Il linguaggio ci consente di respingere gli automatismi, a cominciare da quelli dettati dai nostri istinti. Possiamo dire “no” agli impulsi (questo è sostanzialmente l’unico scopo della prolungata educazione dei bambini) ma possiamo dire “Preferirei di no” anche al capoufficio, come Bartleby lo scrivano di Melville. Possiamo dire “no” alla famiglia, al gruppo, alla società in cui siamo immersi. Possiamo dire “no”, ai presidi, ai sindaci, ai ministri, ai poliziotti, ai soldati. Possiamo dire “no” anche agli algoritmi che si sono impadroniti delle nostre vite attraverso quel comodo oggetto che sta in tasca e ci permette di fare fotografie, ricevere messaggi, avere le previsioni del tempo, comprare un libro e parlare con i parenti (i consigli di Roberto Casati su come resistere a un uso compulsivo del telefonino erano sul numero di novembre di Professione docente).
Mai come nei prossimi anni saremo chiamati a dire “no”: a una burocrazia soffocante, con la sua neolingua priva di senso, a controlli ossessivi e inutili, all’intrusione nelle nostre vite dei moduli, delle circolari, delle scartoffie digitalizzate. Soprattutto, saremo chiamati a dire no al conformismo, alla passività, all’accettazione del disumano. Saremo chiamati a resistere contro chi viola la Costituzione tutti i giorni, e se ne vanta. Saremo chiamati a resistere all’incompetenza, all’arroganza, alla volgarità di chi abbandona i disperati in mezzo al mare e finanzia le gang criminali che si spacciano per il “governo” della Libia.
Saremo chiamati a fare della scuola un luogo di resistenza alla barbarie.
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Fabrizio Tonello è è docente di Scienza politica presso l’Università di Padova, dove insegna, tra l’altro, un corso sulla politica estera americana dalle origini ad oggi. Ha insegnato alla University of Pittsburgh e ha fatto ricerca alla Columbia University, oltre che in Italia (alla SISSA di Trieste, all’Università di Bologna).
Ha scritto L’età dell’ignoranza (Bruno Mondadori, 2012), La Costituzione degli Stati Uniti (Bruno Mondadori, 2010), Il nazionalismo americano (Liviana, 2007), La politica come azione simbolica (Franco Angeli, 2003).
Da molti anni collabora alle pagine culturali del Manifesto.
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