La nuova procedura d’ esame non ha importanza in sé ma intende invece agire, in modo retroattivo, sulla metodologia didattica scelta dai docenti nel corso dell’anno scolastico, per imporre loro una preparazione per «competenze» e anti-disciplinare
27 Agosto 2019 | di Giovanni Carosotti
Risulta certamente doveroso proporre, a inizio d’anno scolastico, delle rinnovate valutazioni sul nuovo Esame di Stato, dopo che nel numero di maggio avevamo manifestato tutte le nostre perplessità per un provvedimento da una parte improvvisato e incerto nei suoi meccanismi, dall’altra molto sicuro di sé sui fondamenti pedagogici che si proponeva di introdurre nella scuola della riforma.
È indubbio che, alla vigilia delle prove, regnava non solo tra i docenti, e di conseguenza fra gli studenti, ma persino tra i tecnici ministeriali e i diversi Uffici Scolastici Regionali, la più completa confusione in merito alla prassi concreta con cui l’Ordinanza Ministeriale doveva essere applicata. Soprattutto per quanto riguardava la delicata fase del colloquio, che appariva la più evanescente. A conclusione dell’esame, non c’è dubbio che l’impressione di confusione permanga, e si può affermare che non si è accumulata affatto un’esperienza tale da far giungere i docenti con le idee più chiare per il prossimo anno.
Non riteniamo che ciò preoccupi particolarmente le autorità ministeriali, per le quali la nuova procedura d’esame non aveva importanza in sé; ma intendeva invece agire, in modo retroattivo, sulla metodologia didattica scelta dai docenti nel corso dell’anno scolastico, per imporre loro una preparazione per «competenze» e anti-disciplinare. Lo si è potuto constatare, in particolare, in alcune prese di posizione degli Uffici Scolastici Regionali di Lombardia e Veneto, i quali hanno fornito indicazioni prescrittive –quando il lavoro delle Commissioni era già in corso- sul materiale da inserire delle buste, che avrebbe dovuto essere «non noto». Non solo non si è capito immediatamente l’autentico significato di questa espressione, se cioè il contenuto delle buste dovesse esulare completamente o meno dai contenuti dei programmi svolti, ma si è avuta da subito l’impressione di una forzatura rispetto alla normativa, in contraddizione con alcune indicazioni fornite da altri ispettori e dallo stesso ministro in precedenza, in particolare sulla centralità che manteneva, rispetto alle decisioni della Commissione, il “Documento finale” redatto dal Consiglio di Classe. Come non interpretare questa iniziativa dei due USR (delle Regioni non a caso più decise nel procedere verso il progetto di regionalizzazione) come una volontà di imporre nel modo più radicale un approccio al colloquio di carattere decisamente anti disciplinare, in maniera da creare un precedente in vista delle programmazioni curricolari future?
Dal punto di vista della valutazione, l’esito dell’Esame è apparso meno flessibile. Un risultato negativo nelle prime due prove ha pregiudicato l’esito finale, senza che ci fosse la possibilità, consentita dalla abolita «terza prova», di riequilibrare un compito eventualmente non riuscito attraverso una verifica concentrata su tutte le discipline.
Il colloquio (diminuito per importanza in termini di valutazione) non poteva poi che assumere un’impostazione monocorde e ripetitiva, con percorsi suggeriti e in qualche modo memorizzati, con parti del programma inevitabilmente privilegiate rispetto ad altre, senza che potesse emergere una comprensione d’insieme del sapere acquisito. E ciò indipendentemente dalla qualità della preparazione degli studenti; anche i più capaci erano portati a ridurre la complessità del ragionamento nel tentativo di individuare improbabili collegamenti. Non si è trattato affatto, come sicuramente affermerà qualcuno, di un’inadeguatezza nella preparazione dell’esame dovuta all’improvvisazione cui i docenti sono stati costretti nel passato anno scolastico, ma di un limite strutturale di questa nuova impostazione. A riguardo, vi è un precedente storico particolarmente efficace, ovvero i programmi di storia come concepiti dall’allora ministro della pubblica istruzione Giovanni Gentile a seguito della riforma del 1923. Nel tentativo di contrastare il nozionismo positivista, egli propose la trasmissione del sapere storico attraverso “tesi”, le quali avrebbero dovuto far comprendere allo studente come la storia fosse molto più che una raccolta di fatti, bensì un’interpretazione sempre in divenire degli stessi. Il risultato fu, come testimonia il vivace dibattito che si tenne su la “Nuova Rivista Storica”, che gli studenti tendevano a memorizzare le tesi comunicate loro dal rispettivo docente, senza affatto migliorare la capacità rielaborative. Le quali risultano invece possibili a conseguirsi solo a seguito di un’approfondita e specialistica conoscenza disciplinare. Analoga considerazione si può avanzare per l’ambizioso fine che si propone il colloquio del nuovo esame, ovvero l’elaborazione di un percorso pluridisciplinare a partire da un materiale di partenza, fondato su legami concettualmente forti e originali. Anche nel migliore dei casi, non è possibile che uno studente liceale possa giungere a una tale padronanza senza una conoscenza disciplinare adeguata e approfondita, ormai impraticabile con la riduzione d’orario dei curricola e anche a seguito della “didattica per competenze”. L’idea a fondamento di quest’ultima (come dell’intero progetto distopico di una “scuola senza materie” sostenuto dall’Associazione Nazionale Presidi e dalla Fondazione Agnelli) è che si possa partire, nella comunicazione didattica, dalla relazione, dal legame di argomenti, dalla panoramica generale, e successivamente introdurre i contenuti, scelti in modo strumentale, decontestualizzati, senza continuità storico-cronologica o anche semplicemente logica, in vista del percorso che si vuole proporre. Inevitabilmente, si tratta di una assimilazione senza comprensione, di un sapere che non è capace di confronti (fosse solo perché gli argomenti ritenuti non idonei vengono sostanzialmente esclusi e quindi ignorati dagli studenti) il cui risultato, in vista dell’esame, non potrà che essere la desolante impostazione mnemonica dei percorsi come l’abbiamo sperimentata recentemente.
Questa considerazione ci porta dunque al punto decisivo, in vista della difesa della professionalità docente e della libertà d’insegnamento. Per l’inizio di quest’anno scolastico, ci si può presumibilmente aspettare, da parte di diversi Dirigenti Scolastici, un moto d’autorità nei confronti dei rispettivi Collegi dei Docenti, per imporre una programmazione attraverso le UDA, le scansioni modulari, le moltiplicazioni di riunione a fine di individuare percorsi trasversali o falsamente pluridisciplinari; in vista proprio della preparazione per il nuovo esame. Come abbiamo cercato di mostrare, non esiste alcuna ragione per sposare la «didattica per competenze», con la scusa che garantirebbe una migliore preparazione per il nuovo esame. Anzi, si può con forza affermare che le nuove metodologie indeboliscono le capacità degli studenti di proporre relazioni, che solo una conoscenza dei contenuti disciplinari permette la possibilità di stabilire a posteriori adeguate e originali capacità di collegamento. Che, se si volesse realmente valorizzare questa capacità, bisognerebbe aumentare il quadro orario dei curricoli, pesantemente colpito dai tempi del ministro Gelmini. Se tale ripensamento sembra inattuale e impossibile, rifiutare la «didattica per competenze» risulta il migliore modo per contenere i danni. Anche se, in virtù delle ragioni della cultura e dell’interesse per la crescita intellettuale degli studenti, rimane auspicabile il ritiro del Decreto che istituisce il nuovo esame di stato.
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