La nostra democrazia è, quanto meno, zopppicante, per questo è necessario prendere atto che la scuola italiana è malata e che le due cose sono in relazione fra loro, come del resto sappiamo da molti anni.
29 Ottobre 2019 | di Fabrizio Tonello
Cari colleghi, in particolare di matematica, delle scuole superiori, vorrei sottoporre una proposta a tutti voi. Un testo brevissimo che serva da guida per le commissioni di della maturità e valga per tutti gli studenti: quelli dei licei di qualsiasi tipo, degli istituti tecnici e professionali. Un testo che potrebbe essere concepito grosso modo così:
Nel sostenere le prove di maturità, il candidato deve dimostrare non solo di saper discutere con competenza sulle materie previste ma anche di conoscere alcuni elementi base di educazione civica, storia e geografia, indispensabili a una vita da cittadino responsabile e a un percorso professionale proficuo. In mancanza di queste conoscenze, il candidato sarà considerato non idoneo, qualunque sia la sua media nelle altre materie.
Sento già le perplessità dei dirigenti scolastici, le risatine degli amici e un visibile sconcerto fra i funzionari ministeriali ma vi assicuro che lo dico seriamente. La mia è una proposta concreta, nello spirito di Piero Calamandrei: “Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale”. Poiché la nostra democrazia è, quanto meno, zopppicante, è necessario prendere atto che la scuola italiana è malata e che le due cose sono in relazione fra loro, come del resto sappiamo da molti anni.
L’occasione che mi spinge a scrivere sono gli appelli di settembre di due corsi nella mia università, uno di Scienza politica (triennale) e uno di storia americana (magistrale, in inglese). Prendiamo il primo dei due: chiedo allo studente A di discutere la differenza tra regimi democratici e regimi autoritari; farfuglia qualcosa e allora gli porgo la risposta su un piatto d’argento. Disegno sulla lavagna una cartina del Mediterraneo con delle frecce che partono dall’Italia, chiedendo: “Per esempio, se da qui ci muoviamo verso Est e verso Sud, quali paesi autoritari incontriamo?” Malgrado il mio talento di disegnatore sia minimo, sulla mappa improvvisata Turchia ed Egitto sono chiaramente visibili, oltre che indicati dalle frecce.
Silenzio. Arrivederci al prossimo appello.
Un incidente, un momento di confusione? Passiamo al candidato B, una ragazza che sembra avere quanto meno sfogliato il manuale. Dopo un paio di domande a cui risponde con concetti espressi in modo orribile ma non sbagliati, le chiedo di discutere di sistemi elettorali e in particolare del sistema proporzionale: come vengono assegnati i seggi? “In proporzione ai voti”. Respiro, poi lancio un’altra palla facile: “Israele ha un sistema perfettamente proporzionale, con una circoscrizione unica nazionale e un parlamento con 120 seggi: se il partito X ottiene l’1% dei voti, entrerà in parlamento o no?” Silenzio. L’idea che se un partito prende più del quorum (in questo caso 100%:120=0,83%) DEVE matematicamente avere un seggio non la sfiora.
A questo punto dovrei passare a domande differenti: non è giusto che chi ha ascoltato gli studenti interrogati prima di lui, e magari cercato la soluzione sul libro, sia avvantaggiato. Invece, decido di insistere perché penso che l’esame sia parte della didattica: si possono imparare molte cose anche in questo momento finale del corso. Quindi chiedo al candidato C la stessa cosa: come si trasformano i voti in seggi. “Chi ha più voti vince” è la risposta.
Insisto: siamo in un sistema proporzionale o maggioritario? “Maggioritario” risponde lo studente (si scoprirà poi che, per motivi noti solo a Belzebù, il proporzionale li confonde, non lo capiscono). Sempre nello stato d’animo del Buon Samaritano chiedo: “Va bene, un sistema maggioritario. Supponiamo che il partito Y ottenga il 40% dei voti, quanti seggi avrà?” (A questo punto si suppone che il candidato chieda a sua volta di quale tipo di sistema maggioritario stiamo parlando, magari mostrando di sapere che esistono varie formule differenti). Invece, lo studente C risponde senza esitare: “Il partito Y otterrà tutti i seggi disponibili”.
Resistendo alla tentazione di: a) Battere la testa sul muro; b) Dare le dimissioni e partire per l’Amazzonia in fiamme; c) Andare in pensione e coltivare ortensie sulla mia terrazza (o tutte queste tre cose insieme) dico arrivederci allo studente C e chiamo la studentessa D, che ho visto con una certa frequenza a lezione e quindi mi dà più speranze.
In effetti, su Weber e il concetto di autorità tradizionale, carismatica e legale-razionale impapocchia qualcosa di sensato. Spinto dall’ottimismo torno sulla questione dei sistemi elettorali e le chiedo di parlarmi di circoscrizioni uninominali (che eleggono un solo deputato) e plurinominali (che eleggono più deputati). Un tema rilevante, visto che in queste settimane non si parla che di legge elettorale da riformare. Sulle circoscrizioni uninominali in qualche modo se la cava, poi cala il buio.
Cerco di farle da babysitter: “Lei ha votato alle elezioni politiche?”. “Sì”. “C’erano delle liste con parecchi candidati, giusto?”. “Non ci ho fatto caso”. “Non importa. Supponiamo di avere una circoscrizione che elegge 20 deputati e un partito che ottiene il 40% dei voti, quanti seggi otterrà?”
Silenzio.
A questo punto disegno alla lavagna la proporzione: 40 sta a 100 come X sta a 20. Qualsiasi moccioso di quinta elementare saprebbe la risposta: 8.
Silenzio.
Ora, la domanda per tutti noi che insegniamo è: possiamo dare la maturità e poi la laurea ad una persona che non sa fare un calcolo così semplice? Quando dovrà confrontare le tariffe Tim e Vodafone la calcolatrice del telefonino sarà sufficiente? Quando dovrà valutare le offerte per un mutuo della banca si affiderà ai depliant colorati offerti allo sportello?
Sappiamo che l’Italia ha il poco invidiabile primato di aver eletto, nel 2018, deputati e ministri che ignorano non solo la Costituzione ma anche la data dell’Unità d’Italia, senza contare i maltrattamenti alla grammatica e alla sintassi. E sappiamo ugualmente che discutere di tutto questo rischia di diventare un nuovo genere letterario, un remake del celebre libro del 1990 di Marcello D’Orta Io speriamo che me la cavo. Un tormentone che diverte (forse) i giornalisti ma non fa avanzare di un millimetro la battaglia contro l’ignoranza che ci circonda e mette a rischio la stessa democrazia.
Per questo occorrono misure radicali. I laureati entreranno nella classe dirigente del Paese: magari non da ministri ma da tecnici dei ministeri (quelli che effettivamente scrivono le leggi) o da dirigenti di imprese che producono, esportano, fanno da motore alla nostra economia. Non possiamo permettere che entrino all’università senza sapere dove sta l’Egitto o ignorando le tabelline. Non importa se sono capaci di citare a memoria i poeti del Dolce Stil Novo: gli dobbiamo fare un esame di cultura generale, altrimenti usciranno dalle nostre aule convinti che Giulio Regeni sia stato vittima di un incidente stradale anziché di un assassinio per opera del regime autoritario che governa al Cairo. In quell’Egitto che molti di loro non sanno trovare su una carta geografica.
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Fabrizio Tonello è docente di Scienza politica presso l’università di Padova, dove insegna, tra l’altro, un corso sulla politica estera americana dalle origini ad oggi. Ha insegnato alla University of Pittsburgh e ha fatto ricerca alla Columbia University, oltre che in Italia (alla SISSA di Trieste, all’università di Bologna).
Ha scritto L’età dell’ignoranza (Bruno Mondadori, 2012), La Costituzione degli Stati Uniti (Bruno Mondadori, 2010), Il nazionalismo americano (Liviana, 2007), La politica come azione simbolica(Franco Angeli, 2003).
Da molti anni collabora alle pagine culturali del Manifesto.
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