Coronavirus: cosa ha rivelato
01 Maggio 2020 | di Adolfo Scotto di Luzio
Quelle che state per leggere sono parole che dispiaceranno a molti ma è necessario pronunciarle perché non è affatto vero che la scuola, i suoi insegnanti, soprattutto le maestre elementari, abbiano risposto con generosità ad una situazione drammatica ed eccezionale come l’emergenza da Coronavirus. Al contrario, in molte, troppe, in queste settimane si sono trincerate dietro un corporativismo che non saprei definire altrimenti che miserevole. Una vera e propria diserzione civile che ha rappresentato un duro colpo alla Scuola come istituzione pubblica al servizio di interessi generali che trascendono tanto gli orientamenti privatistici delle famiglie quanto le convenienze dei docenti. Messe di fronte alla necessità di approntare una forma di continuità istituzionale del proprio ruolo magistrale, non limitandosi ad inviare compiti ai propri allievi, ma impegnandosi in una relazione didattica che facesse ricorso a strumenti di tipo elettronico, le maestre hanno fatto valere le più diverse obiezioni, non ultima quella, insieme ridicola e scandalosa, che l’obbligo della didattica a distanza non è previsto dal contratto di lavoro. Se è per questo, non lo era nemmeno la pandemia. Ma tant’è.
So benissimo di compiere una generalizzazione ingenerosa, come sempre d’altronde è vero di ogni discorso che non distingue. Ma vorrei chiedere agli insegnanti della scuola elementare che in queste settimane si sono dannati l’anima per continuare a fare lezione se quello che sto dicendo è privo di fondamento; se ritengono che nel loro mondo il neghittoso corporativismo di cui sto parlando è una mia personale invenzione o se, al contrario, non conoscono nella loro stessa scuola e spesso nella loro stessa classe casi di colleghi che, come suol dirsi, “non ne vogliono sapere”? Non credo che questi insegnanti in tutta onestà possano negare una situazione del genere. Invece sanno, anche se non sempre sono disposti ad ammetterlo, che nel loro ambiente professionale i codici deontologici sono quanto meno elastici, adattabili per così dire alle circostanze e alle convenienze.
Certo, non si passa alla didattica a distanza come se niente fosse, come se si trattasse semplicemente di spostarsi in un’aula diversa. E non si può pensare di fare lezione al computer a dei bambini di otto, nove o dieci anni come se fossero degli adolescenti, o addirittura studenti universitari. È impensabile e anche sciocco pretendere di tenerli dinanzi ad uno schermo per ore, imponendogli lezioni formali su argomenti astratti attraverso un canale, il video, l’immagine elettronica, che è in sé foriero di distrazione e inquietudine, con quelle migliaia e migliaia di impulsi luminosi che colpiscono la corteccia cerebrale degli astanti. Così come non si possono ignorare le obiezioni di natura sociologica sulle molte diseguaglianze che strutturano lo spazio educativo e che la distanza fisica dalla scuola fa emergere ed enfatizza. Le grandi e tradizionali opposizioni che spaccano la città, dividendo e allontanando i quartieri del centro dalla periferia, le famiglie monoreddito da quelle in cui entrambi i genitori lavorano, le case tappezzate da libri da quelle in cui l’unico accesso al mondo è il televisore, insomma tutto il repertorio dell’ingiustizia sociale trova conferma nel modo con il quale i bambini utilizzano gli strumenti elettronici e spesso nel fatto di possederne o meno uno. Eppure sarebbe singolare non fare scuola per questi motivi. Non si protegge qualcuno togliendo una risorsa di cui non tutti possono godere. È una visione dell’uguaglianza, questa, da trogloditi. Più che uguaglianza è un livellamento verso il basso. L’argomento dell’ uguaglianza si può inoltre ribaltare. Prendete una classe dove c’è la presenza di uno o più bambini nati in Italia da genitori stranieri. Non sempre in casi come questi il problema è l’accesso a internet o il possesso di un computer, non più di quanto non lo sia per altre famiglie italiane di reddito basso. Il problema qui è di natura squisitamente culturale. L’insegnamento dell'italiano, ad esempio. La maestra assegna i compiti, i bambini li eseguono, poi li inviano all’insegnante che li corregge e dà ai suoi allievi, come suol dirsi, un feedback. Molte maestre ritengono di aver fatto già molto con questo. Ma provate a spiegare la differenza tra modo congiuntivo e modo indicativo ad un bambino di terza elementare i cui genitori non parlano l’italiano come lingua naturale. Provate a spiegarlo semplicemente ad un bambino italiano figlio di italiani. Tutto questo non può essere affidato alla comunicazione differita a cui si riduce lo scambio didattico che le maestre praticano “caricando” i compiti su qualche piattaforma, posta elettronica, WhatsApp o quale che sia. Ci vuole scambio, presenza, mediazione linguistica in situazione, in una parola ci vuole la didattica. Ed è quello che molte maestre si rifiutano di fare. In questo modo però gli insegnanti non fanno che restituire alle famiglie, vale a dire alle differenze sociali che dividono i bambini, il compito di supplire alla loro latitanza. In questi giorni stiamo assistendo ad una silenziosa secessione delle famiglie dal sistema della scuola pubblica nazionale e il ricorso in massa a forme antiche di scuola, fatte da insegnanti privati e nonni che entrano nelle case attraverso la porta di internet e che realizzano una forma di homeschooling, o di ottocentesca scuola paterna, che rappresenta a tutti gli effetti un tratto culturale e sociale regressivo, ma che è l’esito pressoché obbligato della renitenza magistrale.
C’è poi un’altra questione in ballo. Internet e l’uso degli strumenti elettronici per fare scuola. Molte sono le questioni in gioco e tutte richiedono di essere affrontate con serietà. C’è sicuramente un problema di tutela dell'immagine pubblica dell’insegnante, ma questo vale per tutti, per le maestre, come per i docenti della scuola media e superiore, per i professori universitari. La presenza occulta dei genitori di cui molte maestre si lamentano viene vissuta come una indebita ingerenza, un giudizio implicito. Non si ammettono genitori in aula, è impossibile tenerli a distanza quando l’aula si sposta in cucina. È così e non ci si può far niente. Quando faccio lezione all’università non vedo i miei studenti, tutti celati dietro i loghi dei loro contatti elettronici. Ne ho più di cento e solo pochi interagiscono via chat. Cosa facciano gli altri non lo so. Prendono appunti, giocano a tetris, si fanno gioco di me? Non lo so. Ma non posso non fare lezione. Vale qui un ragionamento analogo a quello fatto prima per l’accesso ad internet. La diseguaglianza non è una buona ragione per togliere a tutti quello che alcuni non possono avere. Con questo non si è risolto il problema, si cerca solo un accomodamento in mancanza di meglio. E nella speranza di tornare al più presto in aula, obiettivo a cui non dobbiamo rinunciare.
Il tempo è l’unico criterio in questa faccenda. Nel senso che dobbiamo considerare tutto questo come temporaneo. È alla luce di questo fattore che si deve porre in maniera corretta l’altra questione posta dalla didattica a distanza. Come dobbiamo intendere l’uso degli strumenti elettronici? È fin troppo evidente la pressione di molti teorici della digitalizzazione della scuola (e di molti affaristi) a sfruttare l’occasione per imporre alla scuola la svolta informatica. Ma diciamoci la verità se c’è una cosa che salta agli occhi in questa emergenza è la povertà di tutti questi discorsi. Nessuno ha impedito a costoro di fare questo salto negli ultimi vent’anni. Eppure, la povertà dell’infrastruttura digitale della scuola italiana è sotto gli occhi di tutti. Assenza di cablaggio, dispositivi vecchi e di seconda mano, la scuola italiana non dispone di piattaforme didattiche e utilizza gli strumenti domestici, quello che ciascuno liberamente può scaricare dai vari fornitori di applicativi. Non c’è nessuna rivoluzione digitale all’orizzonte se non un mare infinito di chiacchiere stucchevoli. Certo quello che non va fatto è considerare le piattaforme come degli ambienti di apprendimento. Niente di tutto questo. Si tratta solo di canali di comunicazione, strumenti di collegamento di una comunità dispersa. Come una radio, solo più evoluta. È inutile e anche producente dare ragione ai fanatici della digitalizzazione. Il punto che troppi docenti non hanno capito è che la scuola non è chiusa, è solo fisicamente irraggiungibile.
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Adolfo Scotto di Luzio insegna Storia della pedagogia, Storia delle istituzioni scolastiche ed educative e Letteratura per l'infanzia nell'Università di Bergamo. Si è occupato a lungo di storia del fascismo e, in particolare, della costruzione del suo apparato culturale e anche di storia delle istituzioni culturali e della scuola (con un'attenzione mai smessa per l'editoria e la stampa).
Ha pubblicato diversi volumi, tra cui ricordiamo, per il Mulino, «Il liceo classico» (1999), «La scuola degli italiani» (2007) e «Napoli dei molti tradimenti» (2008), «Senza Educazione. I rischi della scuola 2.0» (2016); per Bruno Mondadori «La scuola che vorrei» (2014).
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