Come le università hanno reagito alla pandemia da Covid-19: didattica a distanza, mista, sospensione delle attività. Sullo sfondo, l’impatto economico sui bilanci dei vari Paesi che ospitano studenti stranieri.
03 Novembre 2020 | di Marco Morini
La pandemia da Covid-19 hamesso sotto stress i sistemi d’istruzione di tutti i paesi del mondo. Nel numero scorso abbiamo scritto delle scuole e della decisione di riaprire in presenza, seppur con tempistiche e modalità diverse. Un criterio seguito ovunque, basato sulla convinzione della priorità assoluta da assegnare al sistema scolastico e alla scuola dell’obbligo in particolare.
Per quanto riguarda le università la situazione è invece diversa. L’autonomia garantita ai singoli atenei dalle leggi e dalle costituzioni dei paesi democratici ha prodotto un caleidoscopio di decisioni che differenzia non solo nazioni da altre nazioni ma anche le singole università di uno stesso paese. Generalizzando al massimo, le scelte degli atenei si dividono tra: continuazione di una didattica a distanza al 100%, ripartenza con una modalità mista (didattica in presenza per il docente e parte degli studenti), riapertura totale e in presenza delle università, sospensione dell’attività didattica fino a data da destinarsi.
Per quanto riguarda l’Italia, non si ha notizia di atenei che abbiano cessato gli insegnamenti a causa della pandemia e, per evidenti ragioni sanitarie, nessun ateneo ha ripreso le lezioni solamente in presenza. Alcune università hanno scelto di continuare la didattica a distanza per il primo semestre e poi riaprire parzialmente soltanto a Febbraio 2021, mentre la maggioranza delle università ha ricominciato le lezioni in modalità mista. Un modello di insegnamento che mantiene la fruizione in streaming delle lezioni ma che riporta docenti e alcuni studenti in aula. Ovviamente l’ambiente nel quale si fa lezione è profondamente mutato: disinfettanti, mascherine, distanze tra studenti e docenti e tra studenti e studenti. Inoltre è stato necessario quasi ovunque un significativo investimento economico atto a rinnovare la strumentazione elettronica di molte aule: videocamere, tablet, proiettori, microfoni ambientali, piattaforme digitali di prenotazione. Una spesa non indifferente ma che ha profondamente ammodernato gli spazi dedicati alle lezioni e che sicuramente produrrà effetti positivi anche negli anni accademici post-pandemia.
All’interno del modello a modalità mista vi sono poi numerose differenze lasciate alla strategia, alla sensibilità e alla capacità di spesa di ciascun ateneo: alcuni hanno previsto una turnazione degli studenti in aula, altri una prenotazione obbligatoria online dei posti, altri ancora hanno ridisegnato l’offerta formativa privilegiando l’attività seminariale e l’intervento di docenti ed esperti collegati online magari da migliaia di chilometri di distanza. Molti atenei obbligano i docenti a videoregistrare le lezioni e poi archiviarle in una piattaforma accessibile solo agli iscritti. Altri disincentivano questa modalità, nell’idea che una fruizione asincrona possa mettere a rischio uno dei cardini dell’insegnamento universitario: l’evento “vivo” della lezione.
All’estero le dinamiche sono simili. Secondo un articolo del Chronicle of Higher Education, oltre il 90% delle università statunitensi ha scelto un modello misto contro appena il 6% che ha iniziato il nuovo anno accademico con un’offerta didattica puramente a distanza e un 2% che sta tentando una ripartenza in presenza con i campus universitari di nuovo pieni di studenti.
I modelli di riapertura non solo rispecchiano diverse priorità e approcci all’insegnamento ma hanno anche dei costi importanti e ricadute economiche altrettanto significative. In Italia il temuto calo delle iscrizioni non c’è stato e i modelli almeno “misti” sono stati incoraggiati anche per l’impatto economico che gli studenti hanno sulle città dove si trasferiscono: bar, ristoranti, affitti, copisterie, sono molteplici le attività economiche che sono danneggiate dalla fruizione online a distanza dei corsi universitari.
Ma nelle migliori università anglosassoni, che ogni anno accolgono migliaia di studenti stranieri, in gran parte asiatici, i numeri potrebbero non tornare. Nel 2019, secondo una ricerca del New York Times, gli studenti cinesi iscritti nelle università americane erano più di 400mila. Mentre un miliardo e mezzo di sterline era la stima dell’impatto economico dei 120mila cinesi che frequentavano le università del Regno Unito. E oltre 200mila sono gli studenti cinesi iscritti negli atenei australiani (con un ritorno economico stimato superiore ai 4 miliardi di dollari). Cifre enormi che gli atenei ma anche i governi nazionali hanno timore di vedere calare. In risposta alla potenziale perdita di studenti, il governo canadese ha reso più facile la procedura di concessione dei visti d’ingresso per motivi di studio mentre il Dipartimento per l’Immigrazione statunitense, in uno sforzo apparentemente di natura opposta ma di intento simile, ha reso più difficile la concessione del visto a quegli studenti stranieri che si iscrivono a università americane ma che intenderebbero seguire le lezioni dal paese d’origine (questo non implica l’obbligo per questi studenti di presentarsi in aula ma solo quello di trasferirsi negli USA e poi decidere quale modalità di frequenza scegliere).
Un’ultima strategia di attrazione e di protezione è relativa al tema della salute: le università d’elite offrono assicurazioni sanitarie di copertura totale, hanno aperto nuovi ambulatori ad accesso continuo e al tema della sicurezza antivirus e dedicano ora le corpose pagine d’apertura dei loro siti web ufficiali e dei cataloghi di presentazione.
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