Perché gli insegnanti vivono una sostanziale irrilevanza a livello sociale, non riescono più a far sentire la loro voce, né a farsi ascoltare da chi dirige la politica scolastica?
29 Maggio 2012 | di Paolo Petrocelli
Ma noi siamo lì, in un’aula spesso tempestosa, per provare a condurre in porto tutti quanti, quelli carini ed educati come marinaretti e anche il pirata con l’uncino.
M. Lodoli, “Il rosso e il blu”
In classe entra una cipolla: svariati strati di magone, paura, preoccupazione, rancore, rabbia, desideri insoddisfatti (..) Guardateli, ecco che arrivano, il corpo in divenire e la famiglia nello zaino. La lezione può cominciare solo dopo che hanno posato il fardello e pelato la cipolla (..) la cipolla si ricomporrà all’uscita e forse domani bisognerà ricominciare daccapo.
D. Pennac, “Diario di scuola”
Chissà se coloro i quali ragionano di scuola sui media hanno mai riflettuto su quel provare a condurre in porto tutti quanti gli alunni, di cui parla Lodoli, cercando di non perderne nessuno (nemmeno il pirata con l’ uncino), chissà se hanno qualche volta sospettato l’esistenza di quella cipolla fatta di paura, preoccupazione, insoddisfazioni varie, con cui i ragazzi entrano in classe e che, secondo la metafora di Pennac, deve essere pelata prima di iniziare la lezione.
Questo dubbio si alimenta leggendo certi articoli, pubblicati da quotidiani anche a larga diffusione, in cui capita di vedere sovrapposto alla scuola di oggi il ricordo della belle classi di un tempo: improbabile paragone con una realtà assai remota, che ben poco ha da spartire con quella attuale.
Anche prescindendo da essi, però, sui giornali si parla quasi sempre di scuola con superficialità : si pubblicano notizie orecchiate, si privilegia il folclore o la nota di colore, si riportano senza alcuna analisi critica, o tentativo di contestualizzazione, i dati di ricerche internazionali [1].
E poi, last but not least, praticamente tutti i giornali di informazione, quando parlano di scuola, danno pochissimo spazio agli insegnanti che insegnano.
Ci si rivolge dunque a qualche ex docente, da tempo impegnato in altre attività, forse più prestigiose, sicuramente più redditizie, oppure si ospita qualche professore noto al grande pubblico, magari perché scrittore di successo, dando la chiara impressione che quel che veramente si insegue è la firma, col suo potere di richiamo. In generale, si preferisce dare spazio ad “esperti” che sono quasi sempre studiosi o analisti molto simili a quei pedagogisti accademici descritti con profetica lucidità da don Milani. Discettavano, costoro, di scuola, senza prendersi la briga di andare a vedere come effettivamente funzionava e men che meno di andare a conoscere chi la frequentava : non avevano bisogno di parlare coi bambini, poiché li conoscevano “a memoria, come noi le tabelline”, questa l’espressione usata dai ragazzi del priore di Barbiana [2].
E’ opinione corrente che la scuola non faccia notizia, a parte i momenti “rituali” dell’inizio dell’anno scolastico, dell’esame di stato ecc. oppure quando accade qualche fatto clamoroso, magari di cronaca nera (o rosa) tra le sue mura.
Riesce però difficile credere che un’istituzione che occupa tempo ed energie di milioni tra ragazzi ed adulti ( insegnanti e genitori ) non desti interesse.
Certamente non aiuta il fatto, lo si è visto, che all’opinione pubblica spesso parla di scuola chi tanto poco la conosce.
Non molto diversamente accade in TV: si tratta di scuola all’interno di programmi che generalmente si occupano di altro e lo si fa con la solita formula: al centro della discussione uno o due esperti (vedi sopra), ad interloquire con loro un paio di politici, che immancabilmente parlano di riforme e razionalizzazioni della spesa (termini sempre più sovrapponibili), alcuni rappresentanti di categorie le più variegate (tutto pare compatibile con la scuola) e, a seguire, qualche fugace quanto opzionale intervista ad insegnanti.
Ho avuto una personale esperienza di ciò, quando, ospite di un programma dedicato alla scuola trasmesso da una TV satellitare, ho dovuto, unico insegnante presente, sudarmi un ridotto spazio tra esperti e rappresentanti di associazioni varie. Per di più, ho dovuto usare buona parte di questo spazio per rispondere alla richiesta di commentare un imbarazzante filmato, diffuso su Youtube, evidentemente selezionato per ragioni di audience, in cui si poteva vedere un professore in balia degli studenti di una sua classe.
A conferma dell’idea che la scuola fa notizia solo quando fa scandalo.
In una delle più significative tra le recenti indagini sulla scuola italiana si può leggere che
“i media (..) [ hanno] dedicato negli ultimi anni al tema dell’insegnamento (e più in generale dell’istruzione) spazi inadeguati e soprattutto distorti dal desiderio di spettacolarizzazione. Eventi scolastici scelti per la loro drammaticità o eccentricità hanno riempito ore di trasmissione, colonne di articoli e pagine di riviste, spostando la discussione dai veri problemi della scuola a situazioni estreme, che nulla hanno a che vedere con il vissuto quotidiano di milioni di studenti, famiglie, insegnanti” [3].
Se l’immagine corrente della scuola si forma a partire da questo tipo di informazione, non ci si può stupire del fatto che essa appare lontanissima dalla percezione che ne hanno coloro che la vivono in prima persona.
Per completare il quadro, inviterei a considerare l’importanza attribuita a chi insegna nelle discussioni pubbliche sulla scuola. La si percepisce immediatamente, anche a livello grafico, nei manifesti o nelle brochure : all’annuncio dell’intervento dell’esperto tal dei tali, si aggiunge a margine (e a caratteri ridotti) che seguirà la testimonianza di alcuni insegnanti : “interverranno il prof. XY e la prof.ssa KJ come testimoni” : questa la immancabile formula. Ad altri, insomma, l’analisi e i giudizi, mentre a chi insegna è riservato lo spazio piccolo di una testimonianza, che finisce spesso ( anche per l’esiguità del tempo assegnato) per essere di corto respiro, a volte un semplice sfogo.
In definitiva, nei media, ma non solo in essi, pare regnare incontrastato il teorema secondo cui chi ragiona di scuola deve essere innanzitutto e per lo più chi non ne ha diretta esperienza.
Quel che è peggio, è che questo assunto è stato interiorizzato dalla scuola stessa, che non riesce più a produrre una riflessione su di sé : viviamo in una grande lontananza da quella pedagogia nata dentro le aule, frutto delle analisi di chi bambini e ragazzi li frequentava quotidianamente, la quale, in anni nemmeno lontani, suscitava speranze e creava nuovi fermenti culturali.
Era quella pedagogia endogena, che, scrive Frabboni, “ nobilitata da quattro straordinari moschettieri non accademici (di nome Don Lorenzo Milani, Gianni Rodari, Loris Malaguzzi e Bruno Ciari), ha scommesso su bambini e su ragazzi storici, antropologici, in carne ed ossa”.
Essa ha accompagnato, negli anni ’70, “l’età dell’oro della nostra scuola di base” [4], nella quale era possibile confrontarsi con modelli di insegnamento concreto e crescere professionalmente.
In essa nascevano il tempo pieno alle elementari e quello prolungato alle medie, le sperimentazioni e il Nuovo Indirizzo per l’infanzia, tutte innovazioni ispirate dal lavoro dei “moschettieri” sopra menzionati (che, giova precisarlo, erano tutti insegnanti) e dei tanti, oscuri colleghi che, in modo spesso originale, ad essi si rifacevano.
La situazione attuale pare ben diversa: gli insegnanti vivono una sostanziale irrilevanza a livello sociale, non riescono più a far sentire la loro voce, né a farsi ascoltare da chi dirige la politica scolastica..
Non sono più soggetti con cui interloquire per proporre innovazione.
Proprio come i bambini di don Milani, sono diventati un semplice quanto opzionale riferimento: in genere, chi discute di scuola, chi decide come cambiarla non sente alcun bisogno di vederli o ascoltarli.
Nella prassi quotidiana, tale irrilevanza si manifesta in quella che è stata definita impiegatizzazione dell’insegnamento: al di là di quanto affermato, in omaggio al politicamente corretto, nei documenti ufficiali, quello dei docenti sta diventando sempre più un lavoro prettamente esecutivo, scandito e segnato da una serie di adempimenti formali-burocratici che sono fatti passare per l’essenziale. Che cosa infatti è richiesto, che cosa si va eventualmente a controllare se non i registri in ordine, un certo numero di verifiche effettuate (poco importa come), la semplice presenza (non importa se muta o distratta) alle riunioni? Considerato poi che questi aspetti sono, loro sì, facilmente verificabili, c’è solo da augurarsi che a qualcuno non venga in mente di prenderli come parametri del ben insegnare.
Questa trasformazione della sostanza nella forma, che conduce inevitabilmente alla svalutazione degli aspetti più vivi, più vitali del fare scuola, a me pare l’aspetto più deleterio di una crisi professionale che ha notevolmente indebolito gli insegnanti nella consapevolezza di sé, del proprio ruolo, del proprio valore.
Li ha resi così insicuri e incerti, da avere estrema difficoltà nel proporre una propria visione che possa interagire con quelle di altri, formatisi spesso al di fuori della scuola. Da non riuscire talvolta neppure a contrapporre le loro ragioni alle frequenti immagini denigratorie con cui, non sempre in buona fede, sono dipinti, tanto più che il sistema dei media, privilegiando altre voci e altre narrazioni, li relega, lo si è visto, in una sostanziale invisibilità.
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NOTE
(1) Per fare solo un esempio: i dati OCSE –PISA, relativi alle competenze linguistiche e matematiche dei quindicenni in Europa , sono presentati dalla stampa come indice di carenze generalizzate della scuola italiana. In realtà, essi riflettono una situazione a macchia di leopardo: ai risultati chiaramente negativi di alcune zone del paese e di alcune tipologie di istituti, fanno infatti riscontro i risultati in perfetta media europea o anche più lusinghieri di altre (non poche) situazioni. Invano, insomma, si cercherebbe traccia, nella stampa a larga diffusione, di quella che è una realtà fatta di “ vertiginosi divari sia tra i diversi territori sia tra gli indirizzi di scuola superiore” cfr. Fondazione Giovanni Agnelli, “Rapporto sulla scuola in Italia 2011”, Laterza, Roma - Bari, 2011, pag. 10.
(2) Don Milani, “Lettera a una professoressa”, Libreria editrice fiorentina, Fi, 1985, pag. 13
(3) (a cura di ) Cavalli Alessandro –Argentin Gianluca, “Gli insegnanti italiani : come cambia il modo di fare scuola” - Terza indagine dell’ istituto IARD sulle conduzioni di vita e di lavoro nella scuola italiana”, Il Mulino, BO , 2010, pag. 13.
(4) Franco Frabboni, “Sognando una scuola normale”, Sellerio, Pa, 2009, pag. 70 e seg.
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