Invece di celebrare conviene studiare la storia dei provvedimenti istitutivi delle celebrazioni. Sempre che si voglia insegnare storia, non religione
27 Dicembre 2012 | di Stefano Borgarelli
L'egemonia raggiunta dalla ‘memoria' a scapito della storia, era stata discussa dallo storico sociale delle idee Bidussa in un pamphlet a suo tempo recensito con favore (v. ''Troppa memoria, poca storia'', Professione docente, gennaio 2010), scomodo perchè criticava tale egemonia a proposito della celebrazione liturgica del Giorno della Memoria. In limine alla stessa ricorrenza di quest'anno, torna utile riflettere su un altro volume uscito l'anno scorso, La repubblica del dolore (Feltrinelli, 2011), in cui lo storico Giovanni De Luna tratta il tema delle ‘leggi di memoria' usando la chiave di lettura del ‘paradigma vittimario', affermatosi in Italia (ma in varia misura anche nel resto d'Europa), nel corso degli ultimi trent'anni, e con particolare forza dopo la rottura del sistema politico degli anni 1992-1994, ''che rimbalzò immediatamente sul patto fondativo della nostra memoria ufficiale.'' (p. 48). Tale memoria è la religione civile d'un paese - nel senso laico dei legami sociali che tengano unita una comunità -, ne costituisce le fondamenta identitarie comuni. De Luna puntualizza come la sua costruzione sia ''pubblica e non privata, normativa e non spontanea, collettiva e non individuale'', e si presenti come ''la risultante d'un ‘patto' in cui è lo Stato a fissare i termini per cui ci si accorda su ciò che è importante trasmettere alle generazioni future.'' (p. 21). Ma la declinante potenza dello Sato-nazione ha incrinato, più o meno in tutta l'Europa, i meccanismi tradizionali di legittimazione del patto, che risulta ormai da una mediazione sempre più faticosa tra le istituzioni e una pletorica pluralità di soggetti associati, spesso schierati in modo agonistico nella rivendicazione della propria quota pubblica di memoria ufficiale. Più lo Stato-nazione accoglie queste istanze, e legifera senza discriminare tra esse, più la potenza dello Stato stesso si affievolisce, facendo scivolare quest'ultimo nella condizione di Stato-società (cfr. P. Nora, cit. a p. 38).
In questo processo diffuso l'Italia spicca. De Luna ci ricorda le leggi relative a giornate della memoria approvate nel primo decennio del secolo (a partire da quella del 20 luglio 2000, che dichiara il 27 gennaio ''Giorno della memoria''), ma impressionano soprattutto i numerosi progetti di legge che assumono come riferimento centrale - spesso in modo ideologicamente connotato - le vittime di eventi disparati, da ricordare tutte con pari dignità: «[...] giornate della memoria da dedicare alle ‘vittime dell'odio politico' [...], alle ‘vittime della criminalità' [...], alle ‘vittime del comunismo' [...], alle ‘vittime cadute nei gulag sovietici' [...], alle ‘vittime di tragedie causate dall'incuria del'uomo e delle calamità naturali' [...], alle ‘vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall'incuria dell'uomo' [...], alle ‘vittime del dovere' [...], alle ‘vittime del lavoro' [...], agli ‘emigrati italiani deceduti sul lavoro all'estero' [...], ai ‘martiri per la libertà religiosa'.» (p. 20).
Lo storico avverte che la memoria vittimaria non è in sè una novità. Si era già fatta largo nell'immediato secondo dopoguerra, ma con radicali differenze rispetto all'oggi. Tra il '45 e il '47, nell'ambito del nuovo patto memoriale che doveva fondare l'Italia repubblicana, il ‘popolo dei morti' - antifascisti e caduti in guerra - evocato da Calamandrei, ''non veniva presentato nella dimensione ‘vittimaria' dell'innocenza e della inconsapevolezza, bensì sottolineandone quei tratti di protagonismo attivo e cosciente essenziali per proporlo come fonte di una nuova legittimazione dello Stato.'' (p. 43). Se a partire da una prima definizione ONU dell'11 dicembre 1985, il termine vittima concorre a ridisegnare positivamente il diritto umanitario, l'insistenza con cui ricorre nelle leggi italiane ha valenza di «spia linguistica del tentativo di tenere insieme la Resistenza e i ‘ragazzi di Salò', le foibe e i lager, il terrorismo delle Br e la mafia attraverso la costruzione, nel segno della compassione per le vittime, di ‘una memoria avvinta dall'emozione e assorbita dalla sofferenza'.» (p. 83).
Spremuta a dovere dai media, la testimonianza delle vittime diventa catartica per una comunità ideologicamente manipolata, che assiste con scarsa (o nessuna) consapevolezza allo stingersi della storia in una ‘memoria' bipartisan falsamente pacificata. De Luna percorre in ben tre capitoli i rapporti tra la tv e la storia, la memoria, le vittime e la politica, mostrando come il mezzo televisivo sia divenuto ‘agente di storia'. Nel senso migliore dell'espressione, secondo un modello ‘pedagogico' inaugurato da Sergio Zavoli nel lontano '72 - e oggi purtroppo minoritario - con la trasmissione Nascita di una dittatura, in cui le esigenze diverse del rigore storiografico e della narrazione televisiva erano contemperate. Nel senso peggiore dell'espressione, secondo la retorica dell'uso pubblico della storia - oggi prevalente - che influenza pesantemente il racconto televisivo, senza esclusione di reti: ''[...] proprio Rai Tre [...] anticipò molti dei temi e degli argomenti che [...] sarebbero stati al centro delle impazienze revisionistiche alimentate dalla destra: una visione ‘rassicurante' del fascismo, l'insistenza sulla dimensione privata della ‘guerra degli italiani', [...] il declino del protagonismo dei grandi soggetti collettivi, con una Resistenza improvvisamente diventata solo ed esclusivamente ‘guerra civile' e di colpo svuotata di operai e partigiani.'' (pp. 113-114).
La capacità di seduzione che la tv mantiene presso le giovani generazioni, nonostante internet (l'esposizione quotidiana dei bambini starebbe ancora sulle 2-3 ore, con picchi di 5-6), fa dire a De Luna che ''siamo di fronte a un curriculum televisivo che si affianca o si sostituisce al curriculum scolastico'' (p. 25), e giustifica l'ampia trattazione del tema nel saggio. Delude tuttavia, al confronto, lo scarso spazio dedicato in modo esplicito alla scuola italiana. Se non manca una rassegna abbastanza ampia sui cambiamenti dei manuali di storia in Europa - dove ''l'assottigliarsi della crosta della sovranità dello Stato ha consentito la fuoriuscita di un fiume di lava che ribolliva nelle ferite lasciate da un passato novecentesco'', per cui i ''programmi e i manuali scolastici sono uno specchio fedele di questo processo tumultuoso'' (p. 26) -, difetta una visione prospettica sulla scuola, che vada oltre la contestualizzazione critica (e un sostanziale apprezzamento) delle misure volute dal ministro Berlinguer nel '96 (in vigore dal '97), per lo studio del Novecento: ''In quella riforma affiorava già il disagio di un divorzio annunciato tra lo ‘spirito del tempo' e la storia, l'incubo di un paese senza memoria, il timore che la scuola stesse per abdicare alla sua funzione culturale e educativa proprio sul terreno strategico della trasmissione dei valori di base della nostra religione civile.'' (p. 49). Tuttavia, l'attuale contraddittoria condizione degli storici, descritta in due capitoli (‘Storici e parlamento', ‘Gli storici tra vittime e testimoni'), può essere letta in filigrana come un disagio che arriva, giù per li rami, fino al ceto insegnante. Se l'era del testimone apertasi dopo Auschwitz aveva rinnovato, nel corso degli anni '60, i corpus documentari con le testimonianze dai lager, lo statuto di fonte per eccellenza raggiunto dai racconti dei testimoni - solitamente entro il paradigma vittimario - comporta ''il rischio che questa strada finisca con lasciare gli storici inermi, indifesi, subalterni non solo di fronte ai casi clamorosi di ‘falsa testimonianza', ma anche nei confronti della rappresentazione del passato che il testimone intenzionalmente propone come una sua sfida personale al futuro, come un tentativo di imprimere al futuro la sua visione del passato'' (p. 149).
Stessi disagio (e subalternità, in genere), per i docenti che rifiutino la via della mera testimonianza di vittime, vinti (o vincitori), calendarizzata nei giorni canonici, quale facile scorciatoia nell'intrico complesso dei fatti. Anche la mediazione del sapere storico può (deve) avere il suo rigore, mettendo in questione l'atto stesso del celebrare quale contraddizione dell'autentico studio della storia. Contro ogni mistificazione rituale, è bene che le domande dello storico diventino il filtro con cui mediare un sapere irrituale agli studenti: ''In che misura i ‘materiali' preparati dalle tesi revisioniste vengono recepiti in queste leggi [di memoria, ndr]? E quali sono gli elementi che ne emergono come costitutivi del nuovo patto memoriale che viene proposto a fondamento della nostra Seconda Repubblica?'' (p. 67). Invece di celebrare, insomma, conviene studiare la storia dei provvedimenti istitutivi delle celebrazioni. Sempre che si voglia insegnare storia, non religione.
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