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Numero 5 - Maggio 2013
Numero 5 Maggio 2013

La legalità si pratica e non si predica. Intervista con il giudice Pier Camillo Davigo

La legalità è unitaria. Non è possibile scegliere quali regole devono essere osservate e quali no. Soprattutto è necessario far comprendere che una catena lega le piccole infrazioni a quelle più grandi, fino al crimine organizzato


30 Aprile 2013 | di Renza Bertuzzi

La legalità si pratica e non si  predica. Intervista con il giudice Pier Camillo Davigo
Il problema del rispetto della legalità e delle regole comuni caratterizza da molto tempo il nostro Paese. Da una illegalità macroscopica e tragica ad una più sfuggente, diffusa, quasi latente che cresce quotidianamente davanti agli occhi di noi cittadini ed insegnanti. Ogni giorno sempre di più, nelle classi, si combatte una lotta estenuante per impartire e per far rispettare le regole minime della convivenza. Una situazione che peggiora sempre di più e che qualifica, purtroppo in negativo, il nostro Paese. Non possiamo qui ragionare sulla cause che hanno portato a questa deriva della pratica della legalità, un tempo certo meno inquietante, ma possiamo chiederci - ed è ciò che abbiamo fatto intervistando il giudice Camillo Davigo * - se è come la scuola possa educare alla legalità e alla lealtà e se le varie iniziative, anche ministeriali, che sono state progettate in questi anni siano efficaci o meno.
Di corredo, tuttavia, presentiamo una ricerca dell' Osservatorio della Legalità della Lombardia (segnalata in) che rivela un dato da valutare con grande attenzione. La maggioranza dei giovani, convinti avversari delle mafie, non trovano nulla di male (!) a praticare piccole e quotidiane illegalità. Come dire che il male appartiene sempre agli altri. Se è facile predicare e manifestare contro grandi delitti compiuti lontano da noi, è assai difficile interrogarsi ed intervenire sulle nostre personali mancanze, che appaiono ai nostri occhi, sempre piccole e giustificate. Su questo terreno dovrebbe intervenire la scuola, a ricucire un tessuto etico smagliato, con la pazienza e la determinazione che scaturiscono dalla sua funzione istituzionale.

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Dottor Davigo, la scuola educa oggi alla lealtà e alla legalità?
Temo di no. Ovviamente mi riferisco alla mia esperienza di studente ormai molto risalente nel tempo, ma non credo che su questo punto le cose siano cambiate. La scuola italiana abitua gli studenti ad ingannare i loro insegnanti (copiare i compiti, far credere che si sa più di quanto si è realmente imparato) perchè la valutazione che il docente esprime è fondamentale per conseguire il titolo di studio. Negli U.S.A. ho scoperto che gli insegnanti assegnano esercizi da fare a casa a tempo e che gli studenti si attengono al tempo assegnato. Ciò in quanto gli esami che contano non sono (come da noi) quelli di uscita da un ciclo scolastico, ma quelli di ammissione nel ciclo successivo. In quel contesto l'insegnante è l'allenatore, che prepara alla prova da effettuare davanti ad altri ed ingannarlo non ha senso. Non so se la scuola americana sia migliore, ma educa alla lealtà, la nostra abitua al sotterfugio.


In qualche occasione, lei ha espresso un giudizio critico su quelle forme di ''educazione alla legalità'' che vengono impartite nelle scuole. Possiamo entrare nel merito?
Penso che qualche ora di dibattito sui temi della legalità non possa che essere un piacevole diversivo rispetto alle lezioni, in un contesto complessivo in cui i messaggi che arrivano da famiglie, amici, collettività, mezzi di informazione e persino dal mondo politico sono di segno opposto.


Una recente inchiesta dell' Osservatorio regionale sulla legalità della Lombardia ha rivelato che i giovani sono contrari alla mafia ma considerano lecito non pagare il biglietto sul bus. Che ne pensa?
La legalità è unitaria. Non è possibile scegliere quali regole devono essere osservate e quali no. Soprattutto è necessario far comprendere che una catena lega le piccole infrazioni a quelle più grandi, fino al crimine organizzato. Quando ero un giovane sostituto procuratore della Repubblica, un anziano funzionario della Polizia di Stato mi regalò questa perla di saggezza: ''I mafiosi sono come i pidocchi. Vanno dove c'è lo sporco''.


Da giudice di lunga e provata esperienza, come ritiene che si possa irrobustire il senso della legalità in Italia?
Anzitutto cercando di far coincidere i comportamenti legali con quelli convenienti e scoraggiando quelli illegali. Se le case abusive venissero abbattute più nessuno le costruirebbe. Se invece arriva un condono ogni quattro cinque anni l'abusivismo dilaga ed il territorio diviene ingovernabile. Lo stesso vale per l'evasione fiscale ed altre forme di illegalità di massa.

E la scuola, dovrebbe - e come?- partecipare ad un eventuale processo riformatore di questo tipo?
Anzitutto abituando alla lealtà. In secondo luogo provando ad insegnare che obblighi e divieti non sono che il rovescio della medaglia di diritti di altre persone. La cultura della legalità è soprattutto una cultura dei diritti.

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*Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano dal 1981 si è occupato prevalentemente di reati finanziari, societari e contro la Pubblica Amministrazione.
In questo contesto ha fatto parte, nei primi anni Novanta, del pool Mani Pulite, insieme ai colleghi Antonio Di Pietro, Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D'Ambrosio, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Francesco Greco, Tiziana Parenti e Armando Spataro.
Successivamente è divenuto Consigliere della Corte d'Appello di Milano. Ricopre il ruolo di Giudice alla Corte Suprema di Cassazione dal 28 giugno 2005. Ha scritto vari libri, di taglio prevalentemente scientifico.
Fra i testi di divulgazione, si ricordano in particolare La Giubba del Re - Intervista sulla corruzione, scritto in collaborazione con Davide Pinardi, La corruzione in Italia - Percezione sociale e controllo penale, scritto a quattro mani con Grazia Mannozzi e Processo all'italiana con Leo Sist.




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