Adolfo Scotto di Luzio, SENZA EDUCAZIONE: i rischi della scuola 2.0, Il Mulino. Una posizione “scomoda” espressa da Scotto di Luzio contro le mode pedagogiche dell’innovazione digitale a tutti i costi
15 Febbraio 2016 | di Fabrizio Reberschegg
“Non so se ci avete fatto caso, ma in tutto questo discorrere di scuola e di strumenti per la scuola una parola è totalmente assente: lo studio”. E’ l’incipit di uno dei capitoli dell’ultimo saggio del professor Adolfo Scotto di Luzio, docente di storia della pedagogia presso l’Università di Bergamo, che condensa in poche parole una profonda riflessione sul ruolo, l’immagine e la funzione della scuola oggi. L’oggetto del saggio edito dal Mulino sono le politiche pedagogiche e scolastiche che spingono all’introduzione nella scuola di ogni forma di tecnologia digitale nella convinzione che ciò sia la chiave per superare la crisi generale dell’istruzione e dell’educazione nel sistema sociale ed economico attuale. Gli ingenti investimenti nelle nuove tecnologie e le spinte anche premiali per proporre/imporre una didattica legata alla comunicazione digitale e all’uso della tecnologia come strumento individuale di emancipazione non sembrano aver avuto grandi effetti. L’unica ricaduta sicura è stata a favore dell’industria della tecnologia e delle lobbies che la rappresentano mentre la questione fondamentale del diritto/dovere di studiare e dell’acquisizione di vere competenze da parte degli studenti non meramente funzionali al mercato del lavoro è restata all’angolo. Anzi, come è accaduto nel secolo passato in cui i sistemi educativi si sono curvati alla divisione del lavoro fordista, la scuola nuova sembra dover preparare prioritariamente alle nuove competenze lavorative legate all’applicazione dell’informatica e della microelettronica. In questo senso si parla incessantemente di competenze senza porre l’accento sulle conoscenze: le competenze sono spendibili nella produzione, il sapere è troppo spesso inutile nell’immediato. Seguendo una logica funzionale alle trasformazioni del mercato del lavoro le riforme scolastiche che si sono incessantemente susseguite nei sistemi occidentali negli ultimi anni hanno spostato il focus del sistema educativo dalla relazione docente/discente alla centralità del discente inteso come soggetto individualista, cliente sovrano, espressione di bisogni personalizzati e personalizzabili. La tecnologia digitale, e in particolare l’uso di internet e della comunicazione collegata, ha dato l’illusione di consentire ad ognuno un percorso formativo diversificato, una biblioteca dei saperi spendibili in senso soggettivo dove il docente diventa un mero facilitatore della comunicazione e della conoscenza. Una sorta di bibliotecario del sapere senza necessariamente sapere e conoscere.
Il frutto delle politiche scolastiche legate all’innovazione sembra essere paradossalmente l’aumento delle diversità sociali. I figli delle famiglie più abbienti hanno la possibilità di utilizzare la tecnologia in modo più consapevole e tendono a considerarla fatto naturale della loro condizione mentre chi sta peggio si può accontentare di usare il telefonino per chattare con gli amici credendo si essere attore di una rete in cui è solo il pesce. In questo senso tutta la retorica dei libri digitali, delle LIM appare semplice apparato che spesso nasconde la pochezza dei contenuti culturali, educativi e sociali che la scuola dovrebbe dare e dovrebbe in sé rappresentare.
Il saggio di Scotto di Luzio rappresenta nell’era del Bring Your Home Device, tanto caro alla pedagogia renziana, una potente voce critica. Il problema è che tanti, insegnanti e non, sanno benissimo che le cose scritte da Di Luzio sono vere, ma manca ancora il coraggio di dirlo ad alta voce senza rete e a viso aperto.
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