La scuola non deve adattarsi passivamente al nuovo ma aiutare la società a capire se una certa traiettoria è inevitabile.
Roberto Casati, Contro il colonialismo digitale, Editori Laterza, 2013
23 Agosto 2016 | di Renza Bertuzzi
Da tempo ormai circola un luogo comune (ma non vero) secondo cui la scuola dovrebbe aprirsi al nuovo, modificare il proprio mandato costituzionale di istituzione in cui si trasmette cultura e rincorrere allegramente e affannosamente una realtà che galoppa avanti, si spera non verso il nulla.
La vulgata circola dai tempi del ministro Luigi Berlinguer, non lodevole iniziatore di questo nuovo corso, che lo portò a – testuali parole- ripudiare Gramsci per aver osato dichiarare che lo studio è impegno e fatica mentre dovrebbe essere spasso e divertimento. Epigono del ministro, forse con la segreta ambizione di superarlo, è oggi il sottosegretario Davide Faraone, salito alla notorietà quando ha elogiato le occupazioni scolastiche, quale romantica esperienza di “ amorosi sensi” notturni tra i sacchi a pelo. Ultima sua sortita, la necessità di sdoganare il libero uso del cellulare in classe, durante le lezioni. Questo è dunque il quadro in cui è inserita l’ idea di scuola, un quadro coralmente condiviso dall’ opinione pubblica e purtroppo da diversi intellettuali con qualche lodevole eccezione. Tra queste, Roberto Casati, filosofo italiano, direttore di Ricerca al Centre National de la Recherche Scientifique all'Institut Nicod, Ecole Normale Supérieure di Parigi, il quale non condivide questa impostazione e lo dice spesso sia nei i suoi libri che nei i suoi interventi su “ Il Domenicale” de “ Il Sole 24 ore” di cui è collaboratore.
Contro il colonialismo digitale è un testo del 2013 , ancora attualissimo e in linea con i tempi, anche perché, questi tempi non apprezzabili, Casati è riusciti ad anticiparli.
A partire dalla recente affermazione di Faraone sulla licenza di usare lo smarthone in classe che l’ autore analizzava già nel 2013 per liquidarla con cognizione di causa: questo strumenti sono ergonomicamente perfetti, maneggevoli, in cui i testi scritti rappresentano solo un’ app tra le tante ( giochi, posta elettronica, internet ecc...). Si immagini quindi cosa può succedere in classe con gli studenti persi dietro le tante distrazioni a cui possono legittimamente accedere.
La scuola deve adattarsi allo sviluppo della società? Discutiamone, ci dice Casati, che definisce questa “prescrizione” un esempio di normatività automatica, un passaggio dall’ essere al dover essere. Infatti fuori dalla scuola si fanno moltissime cose che a scuola non si fanno: si guarda la TV, si dorme. La scuola non è certo scollata dalla società perché vieta queste attività durante le ore di lezione. Essa è uno spazio protetto, perché inerte, lentissimo, resistente all’ innovazione, rispetto ad un cambiamento erratico e imprevedibile. Per questo, si dovrebbe trovare molto interessante che gli studenti vadano a scuola per fare cose molto diverse da quelle che si fanno di solito nella società. La scuola dispone di spazio e tempo non competitivo e non deve sprecare questo prezioso capitale. (Pag. 73). Tra l’ altro, gli studi sembrano mostrare l’ effetto abbastanza infimo dell’ uso delle tecnologie sui risultati scolastici, comunque misurati. Se anche vi sono deboli miglioramenti, questi sono risibili in confronto ad altri interventi educativi: l’insegnamento allievo-allievo; autoverifiche, una buona struttura dei compiti a casa, sviluppo esplicito del pensiero critico. (Pag. 67). Dunque, sarebbe più opportuno che la scuola, invece di adattarsi passivamente al nuovo, aiuti la società a capire se una certa traiettoria del suo sviluppo sia ineluttabile. Funzione che un tempo si designava “ pensiero critico” e che rientra ancora tra i doveri dei docenti, notiamo noi. Similmente, Roberto Casati scorre molte di quelle nuove idee che caratterizzano la contemporaneità. Novità da molti spesso presentate come indiscutibili, evidenti in sé e tali da far presa sull’ opinione pubblica e che l’ autore analizza con precisione smontando concezioni ripetute ma non così del tutto attendibili come si vorrebbe far credere. A cominciare dal concetto di “nativo digitale”, che designerebbe una nuova forma di intelligenza a cui, per esempio, la scuola dovrebbe adattarsi, ammettendo strumenti informatici e buttando al macero i libri cartacei. Non è così, secondo Casati, che afferma non esservi, nel concetto, “un vero e proprio supporto empirico e concettuale” (pag. 59) , per cui non vi sono ragioni di pensare che esista un’ intelligenza digitale specifica e “il multitasting non è un nuovo modo di agire, ma un’ imposizione subita, causata da cattivo design e inerzia e perciò va combattuto, non dato per scontato”. (Pag. 59).
Poi, la pericolosità dell’ uso inconsapevole di internet, dell’ ignorare quali dinamiche si nascondano dietro il semplice formulare una domanda nella finestrella di un motore di ricerca, per cui lasciamo quelle tracce che comporranno la nostra fisionomia e che servirà ad un robot informatico a creare un’ immagine utile alla pubblicità.
Ancora, la confusione tra informazione e conoscenza. Avere accesso all’ enunciato del teorema di Pitagora non è ancora leggerlo e leggerlo non è ancora capire ( bisogna studiare e sperimentare).
Infine, lo scopo “ del cuore” di questo testo: la difesa del libro cartaceo perché ha la capacità di “ far circolare idee a bassissimo costo e in un formato che presenta una serie di vantaggi, non solo la manipolabiltà ma anche la trasmissibilità, la riconsultabilità, la regabilità”; perché è un oggetto di scambio e di comunicazione”. Non è così nell’ ipad dove il libro è un’ app, ed è nato per soddisfare bisogni rapidi e per crearne incessantemente altri.
Qui ci fermiamo perché la ricchezza di questo testo- che merita un’ attenta lettura- è ancora molto vasta, tanti sono i temi che l’ autore approfondisce con una efficace chiarezza argomentativa e soprattutto senza l’ atteggiamento di chi deplora soltanto senza proporre alternative. Casati non demonizza ma analizza suggerendo soluzioni, alternative, nuovi scorci per fronteggiare un rischio non piccolo: confondere un processo di colonizzazione globale dei cittadini con il sol dell’ avvenire.
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