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Numero 4 - Settembre 2016
Numero 4 Settembre 2016

Le tecnologie a scuola non sono un dato ineluttabile: meglio puntare sull’ “effetto insegnante”

Molti sistemi scolastici che hanno investito in tecnologie hanno fatto passi indietro; l’ innovazione non è di per sé cosa buona e giusta. Il buono va valutato per verificare se porti o meno progresso. Intervista con Roberto Casati.


23 Agosto 2016 | di Renza Bertuzzi

Le tecnologie a scuola non sono un dato ineluttabile: meglio puntare sull’ “effetto insegnante”  ► Professor Casati, da diverso tempo, il governo, soprattutto nella figura del sottosegretario Faraone, dichiara che è bene “ sdoganare” l’ uso libero di cellulari e smartphone in classe? Che ne dice?


Bisogna capire esattamente che cosa si intende proporre. Uno dei documenti di lavoro per il decreto sulla Buona Scuola proponeva l'uso in classe dello smartphone seguendo la pratica cosiddetta “BYOD”, ovvero “Bring Your Own Device”, portati il tuo apparecchio. Mi sembrava che la logica dietro questa idea fosse essenzialmente di risparmio e di ottimizzazione: viste le vacche magre delle finanze statali, visti i risultati modesti degli investimenti in LIM, viste le prospettive costose di un acquisto massiccio di tablet, tanto vale proporre la liberalizzazione degli smartphone, che gli studenti avrebbero già in tasca, e sui quali girano già molte app educative. Ma questo ragionamento, e la sua conclusione, dipendono dal fatto che si presuppone che le tecnologie digitali debbano entrare massicciamente nella scuola. Come se fosse un dato ineluttabile, un destino al quale non varrebbe nemmeno più la pena di opporsi; e questo punto tanto vale ottimizzare, e risparmiare, con in più il tocco populista e modernista, la strizzatina d'occhio allo studente che può finalmente usare il telefonino in classe. Ora, il dato è tutt'altro che ineluttabile, molte scuole e sistemi scolastici che hanno investito in tecnologie educative hanno fatto notevoli passi indietro, l'OCSE ha pubblicato più di un rapporto sui benefici minimi con costi altissimi dell'adozione di tecnologie educative, e ci sono montagne di studi empirici su cose più utili che si potrebbero fare senza farsi abbagliare dai gadget. Perché poi alla fine di questo si tratta: le proposte di introduzione delle nuove tecnologie nell'educazione sono essenzialmente proposte di acquisto o di introduzione di gadget, senza un vero progetto e programma educativo. I termini usati da Faraone sono eloquenti, richiamano il rivoluzionario “è vietato vietare”, ma di fatto non c'è nessuna proposta concreta di come usare lo smartphone. Naturalmente tutti noi sappiamo che cosa succede quando si toglie il divieto di tenere lo smartphone acceso in classe (o quando non c'è l'obbligo di portare le cinture di sicurezza, eccetera). Tutti noi sappiamo anche che ci saranno studenti di serie C con telefonini scadenti, studenti di serie B con telefonini di lusso, e studenti di serie A che verranno mandati dai genitori in scuole private in cui il telefonino è vietato. Al tempo stesso, uno può ispirarsi a buone pratiche che preconizzano un uso limitato delle tecnologie (due-tre ore alla settimana), con contenuti ben prefissati, in spazi dedicati. A questo punto non c'è bisogno del telefonino, si possono usare computer di qualsiasi tipo. Ma il problema è soprattutto di capire quali sono i processi efficaci: non bastano gli annunci, bisogna fare una sperimentazione rigorosa, e costruire programmi sulla base di sperimentazioni. Questo è difficile perché le nuove tecnologie corrono veloce.


► Che ne dice dell’idea imperante secondo cui la scuola dovrebbe aprirsi al nuovo che avanza?


O si tratta di una banalità, di una tautologia (non insegniamo la scrittura degli amanuensi, e non limitiamo più – spero – il programma di storia al 1948), oppure si tratta di un'enfatizzazione evasiva che serve a traghettare qualche parola d'ordine (“nativi digitali”, “multitasking”, “scuola digitale”) senza gran fondamento empirico. Mi è capitato di sottolineare come la parola “progresso”, normativamente molto connotata, abbia lasciato il campo alla parola “innovazione”, apparentemente più neutra. Ma parlare di progresso ci obbligava a indagare se veramente di progresso si tratti. “Innovazione” porta con sé una curiosa normatività automatica, come se ogni innovazione fosse di per sé cosa buona e giusta. Ma non è così. Pulirsi le orecchie con una caffettiera è in un certo senso un'innovazione, ma direi che non sia un progresso. Il nuovo va valutato, non è buono solo in quanto nuovo.
 
► Cosa pensa della scuola attuale, non solo italiana, in cui le difficoltà dello studio vengono risolte soprattutto con la semplificazione e la riduzione dei contenuti?


C'è una dialettica ben nota tra semplificazione e complicazione. Non ha senso cercare di insegnare l'algebra a un bambino di tre anni e non ha senso far fare due ore alla settimana di addizioni in colonna a un liceale. Bisogna mettere a fuoco le competenze e le capacità di ogni età, individuo, gruppo, e agire al livello appropriato, altrimenti si perde la classe per strada, chi per noia e chi scoraggiato dall'ostacolo. Se poi l'idea è di semplificare a ogni costo, questo non ci porta molto lontano, perché la realtà è comunque complessa. Vedo questo nell'esempio, affine, della divulgazione scientifica. Da molti anni lotto contro il progetto per cui fare divulgazione scientifica significherebbe prendere delle cose difficili e renderle intuitive o accessibili a un pubblico generale, creando pillole di conoscenza, riquadri nei libri con contenuti scarni e veloci. Il fatto è che le cose difficili restano difficili, e sono difficili da insegnare e da spiegare proprio perché difficili. Mi interessa un progetto del tutto diverso: partire da cose apparentemente semplici (per esempio, un'ombra) e mostrare che dietro questa apparente semplicità si nasconde un abisso di problemi via via più complicati. Da qualche parte il lettore può decidere di fermarsi, ma è nostro dovere portarlo il più lontano possibile in questa esplorazione, suggerire che la scienza non è trovare soluzioni, ma porre domande nuove e insospettate.


► Lei ritiene che la tecnologia aiuti l’apprendimento?
 
Bisogna distinguere tra l'apprendimento informale, ovvero quello che è semplicemente il risultato di un'esposizione a degli stimoli appropriati, come avviene con la lingua parlata, e l'apprendimento formale, che richiede insegnamento, esercizio, verifiche – come avviene con lettura, la scrittura, il far di conto, l'imparare la biologia o la geografia. L'apprendimento formale è permeato di tecnologia: carta e penna sono una tecnologia. Qui dobbiamo distinguere tra low-tech e hi-tech (tra carta e penna e calcolatrice, tra carta geografica e gps), e all'interno dell'hi-tech distinguere ulteriormente tra sistemi che si limitano ad assistere (come la calcolatrice) e sistemi che fanno vera e propria supplenza cognitiva (come il navigatore basato sul gps). I sistemi che fanno supplenza cognitiva sono oggi a loro volta in grado di “imparare” addestrandoli su grandi basi di dati. Non si fa scuola solo con un'interazione conversazionale, non siamo nell'Accademia platonica e non ci vogliamo privare della scrittura e di tecnologie di qualsiasi tipo. La difficoltà viene ancora una volta dal fatto che serve sperimentazione: sappiamo che imparare a leggere (usare la tecnologia della parola scritta) è fondamentale, e non ci spaventa investire duemila ore di insegnamento molto difficile per portare i bambini e le bambine fuori dall'analfabetismo. Ma non conosciamo ancora i benefici a lungo termine dell'uso dei clicker in classe.
 
► Cosa, a suo parere, sarebbe utile e importante in una scuola veramente efficace?


Su una nota personale, sono sempre stato molto impressionato dagli effetti della collegialità: preparare le lezioni insieme e in parallelo, valutare dopo la lezione gli effetti in una riunione con i colleghi, aggiustare il tiro, il che significa cercare gli studenti in difficoltà su un problema specifico, affrontare e risolvere quel problema prima di andare avanti; incoraggiare piuttosto che stigmatizzare. Ci sono poi molte soluzioni specifiche ormai note per migliorare l'apprendimento (si veda lo studio di Dunolsky.) Ma l'“effetto insegnante” è talmente importante che mi focalizzerei oggi su tutto ciò che permette all'insegnante di ritrovare il ruolo centrale che da molte parti si vorrebbe spostare verso forme più “agili” e tecnologiche di interazione con gli studenti. Gli insegnanti non si limitano ad interagire con gli studenti: devono formare, e devono essere messi in condizione di svolgere al meglio questa missione fondamentale.


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Roberto Casati è un Filosofo italiano, studioso dei processi cognitivi. Attualmente è Direttore di ricerca del Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS), dove ha lavorato sulla rappresentazione dello spazio e degli oggetti, soprattutto con A. Varzi della Columbia University, con il quale ha pubblicato l’ormai classico Holes and other superficialities (1994; trad. it. 1996) e Parts and places (1999; trad. it. Semplicità insormontabili, 2004), tradotto in otto lingue. Esponente della filosofia analitica, già docente in diverse università europee e statunitensi, è autore di vari romanzi e saggi, tra cui La scoperta dell’ombra (2001), tradotto in sette lingue e vincitore di diversi premi, la raccolta di racconti filosofici Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici (2006), Prima lezione di filosofia (2011) e il recente Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere (2013). Membro del comitato di esperti della Fondazione lettera27 Onlus e co-curatore di Mobile A2K (un progetto volto a sostenere lo sviluppo di strumenti innovativi al servizio dell’educazione), vanta la pubblicazione di numerosi articoli e lavori su riviste specializzate e collabora regolarmente all’inserto culturale de Il Sole 24 ore. Con G. Roncaglia, è autore del progetto Wikilex.
 
 
 


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Numero 4 - Settembre 2016
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
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Ha collaborato a questo numero:
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