La scomparsa degli attrezzi dall’istruzione pubblica è il primo passo verso una maggiore ignoranza del mondo di cose in cui abitiamo. Se magari recuperassimo quei torni e quelle frese gettate vie dai nostri istituti tecnici già vent’anni fa? Forse scopriremmo che c’è vita oltre il telefonino
22 Agosto 2017 | di Fabrizio Tonello
Robert Pirsig è morto nell’aprile scorso. Il libro che lo ha reso celebre iniziava così: “Senza togliere la mano dalla manopola sinistra vedo dal mio orologio che sono le otto e mezza. Il vento, anche a cento all’ora, è caldo e umido. Chissà come sarà nel pomeriggio, se già alle otto e mezza c’è tanta afa”. Stiamo parlando di Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, uno dei libri più misteriosi e più venduti degli ultimi 40 anni. Cinque milioni di copie vendute nel mondo a partire dalla sua prima pubblicazione negli Stati Uniti, cinquecentomila copie vendute in Italia tra la prima edizione Adelphi del 1981 e la trentesima del 2011: il fascino di quella che sarebbe stata una perfetta sceneggiatura per un road movie resiste nonostante l'aria culturale che si respira oggi sia ben diversa da quella degli anni Settanta.
Il film non si fece mai, nonostante Robert Redford ne avesse acquistato i diritti e lo scrittore rifiutò numerose richieste analoghe provenienti da Hollywood. Lo accomunavano a Redford, insieme all’amore per il paesaggio e alla cultura dei grandi spazi aperti, l’idea del valore intellettuale e morale dell’esperienza pratica più ordinaria e banale, un tema ricorrente nei film di Redford come Gli spericolati, L’uomo che sussurrava ai cavalli e All Is Lost.
La trama è quella di un viaggio in moto con il figlio undicenne Chris, dal Minnesota alle Montagne Rocciose fino a San Francisco, nell’arco di 12 giorni. Il percorso diventa l'occasione per riflessioni su quella che l'autore chiama “Metafisica della Qualità”. Naturalmente, si tratta di un duplice percorso formativo: quello del figlio, con difficoltà relazionali, che impara a guardare il mondo con stupore e a non diffidarne; e quello del padre, con un passato segnato da problemi psicologici, alla ricerca di una pacificazione interiore e di una riconciliazione con se stesso.
Al successo del libro ha certamente contribuito la sottile autoironia che percorre le pagine, evitando di scoraggiare i lettori perplessi di fronte alle lunghe digressioni su dialettica e retorica, in cui interviene l’alter ego dell'autore in un gioco di molteplici identità. Tutto questo in un racconto basato su elementi reali ma arricchito da felici invenzioni narrative, intrecciato con il discorso filosofico, il libro di memorie, il manuale di meccanica. Il lettore arriva alla fine con l'impressione che dietro le 400 pagine del libro rimanga una miniera di idee e di fatti di cui si percepisce solo l'eco. Il viaggio in moto e l'interrogazione filosofica danno nuova linfa a un genere classico (On The Road di Kerouac era stato pubblicato nel 1957) che attinge ad archetipi e simboli consolidati dell'immaginario americano.
La morte di Pirsig non è passata inosservata nei giornali italiani ma è curioso che nei necrologi l’elemento maggiormente in evidenza fosse l’episodio, probabilmente apocrifo, dei 121 rifiuti ricevuti dall’autore prima di trovare una casa editrice che accettasse il libro. Un tema di gran lunga più interessante da approfondire sarebbe stato la rivalutazione del lavoro manuale contenuta nel volume, una rivalutazione morale e filosofica che per il lettore di oggi è chiarissima, nonostante il linguaggio oscuro con cui la descriveva Pirsig: “Qualsiasi lavoro tu faccia, se trasformi in arte ciò che stai facendo, con ogni probabilità scoprirai di essere divenuto per gli altri una persona interessante e non un oggetto. Questo perché le tue decisioni, fatte tenendo conto della Qualità, cambiano anche te. Meglio: non solo cambiano te e il lavoro, ma cambiano anche gli altri, perché la Qualità è come un'onda. Quel lavoro di Qualità che pensavi nessuno avrebbe mai notato viene notato eccome, e chi lo vede si sente un pochino meglio: probabilmente trasferirà negli altri questa sua sensazione e in questo modo la Qualità continuerà a diffondersi”.
Questo brano (p. 341 della mia ingiallita edizione Bompiani del 1987) continua così, con un lapidario paragrafo che esprime meglio di qualsiasi saggio lo spirito degli anni Settanta: “È così che il mondo continuerà a migliorare. Dio, non voglio più entusiasmarmi per grandi programmi di pianificazione sociale che coinvolgono le vaste masse e che trascurano la Qualità individuale. Si può farne a meno, per un po’. C’è posto anche per loro, ma devono essere costruiti su basi solide: la presenza della Qualità in ciascuno degli individui che li sostengono”. Falliti i grandi programmi, sconfitte le rivoluzioni del 1968, rinsecchita l’azione collettiva, ciascuno di noi deve riscoprire se stesso. Pirsig propone di farlo attraverso la passione per il lavoro, un atteggiamento possibile soltanto in attività dove quella misteriosa dote che lui chiama “Qualità” non è soggetta a contestazioni, come nel lavoro del meccanico.
Può capitare, scriveva Primo Levi in La chiave a stella, “che uno scriva delle cose pasticciate e inutili (e questo accade sovente) e non se ne accorga o non se ne voglia accorgere, il che è ben possibile, perché la carta è un materiale troppo tollerante. Le puoi scrivere sopra qualunque enormità, e non protesta mai: non fa come il legname delle armature nelle gallerie di miniera, che scricchiola quando è sovraccarica e sta per venire un crollo”.
Per quanto ci si sforzi di misurare la qualità del lavoro intellettuale, questa rimane sempre discutibile. Nella realtà, un buon film può essere considerato mediocre da molti, un capolavoro da altri. Un bestseller può essere stroncato dalla critica, un articolo scientifico può ottenere valutazioni assolutamente disparate dai revisori. Lo stesso libro di Pirsig, giudicato “noioso” da molti, è stato paragonato a Moby Dick dal più grande critico letterario del dopoguerra, George Steiner.
Al contrario, le punterie di una moto o sono registrate o non sono registrate. Le candele o sono sporche o non lo sono. I perni di fissaggio del motore sono messi come si deve, oppure no. I bulloni sono stretti correttamente, oppure dopo un po’ si staccano. La vite di regolazione della catena è al suo posto o no. Lo spinotto del pistone è integro, oppure deformato. E’ questo imperativo di fare le cose a regola d’arte che affascina Pirsig, questa certezza che il disordine del mondo domina le nostre vite ma che, almeno nelle moto, le cose possono essere come devono essere. Altrimenti le Honda, le Ducati, le Harley Davidson semplicemente non funzionano. La manutenzione della motocicletta è una forma di resistenza all’entropia (le pagine più divertenti del libro raccontano l’incontro dell’autore con un gruppo di giovani meccanici allegri e totalmente incompetenti).
I problemi di fondo di un’epoca storica vengono talvolta dimenticati ma non scompaiono e ritornano alla prima occasione. Così è il tema del lavoro manuale, eclissato per un quarto di secolo prima dall’espansione dell’istruzione universitaria (che prometteva –falsamente- lavori puliti e sicuri per tutti) poi dagli entusiasmi per la finanza e per internet. Da qualche anno, gli studiosi più attenti si sono accorti che il lavoro d’ufficio non è quel paradiso in terra che ci promettevano e, soprattutto, che per fare correttamente il falegname, l’idraulico, il meccanico, occorrono delle doti di precisione e di attenzione che gran parte dei colletti bianchi hanno perduto completamente.
Per esempio, Richard Sennett, scriveva nel suo L’uomo artigiano che dobbiamo chiederci “cosa ci rivela su noi stessi il fare cose concrete. Imparare dalle cose ci richiede di aver cura della qualità della stoffa o del giusto modo di bollire il pesce”. E in questo processo possiamo crescere, professionalmente e moralmente, migliorando le nostre abilità ma anche la nostra coscienza di cittadini. A condizione di avere il tempo necessario, naturalmente.
Così come Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta appartiene alla stessa epoca di La chiave a stella, il libro di Sennett è contemporaneo e in forte sintonia con il saggio di Matthew Crawford Il lavoro manuale come medicina dell’anima il cui autore, con un dottorato in filosofia politica e direttore di un centro studi a Washington, qualche anno fa abbandonò il suo posto ben retribuito per dedicarsi a un’officina di motociclette.
Crawford, al contrario di Pirsig, non ha bisogno di rendere omaggio alle filosofie orientali per chiarire la sua posizione: “La scomparsa degli attrezzi dall’istruzione pubblica è il primo passo verso una maggiore ignoranza del mondo di cose in cui abitiamo”. E aggiunge che questa ignoranza è coltivata dalle grandi aziende, citando l’esempio delle auto di oggi, in cui il motore è praticamente inaccessibile alle ispezioni se non con strumenti di lavoro “esoterici”.
Il declino del rapporto con gli strumenti del lavoro manuale rende il comune mortale sempre più passivo e dipendente verso gli oggetti che acquista, costringendolo a cambiare un intero sistema se il più piccolo dei componenti smette di funzionare. Crawford si preoccupa subito di aggiungere che questo spreco non è il focus del suo libro: il tema è il senso di competenza e di possibilità di agire che si provano lavorando con le proprie mani.
Ed è proprio ciò che i sociologi chiamano agency, capacità di agire, il motivo della riscoperta del lavoro manuale: saper aggiustare la lavatrice, l’aspirapolvere, il condizionatore dà un senso di soddisfazione, di controllo sul mondo che non ha prezzo. Nel caso della moto, ovviamente, queste sensazioni positive si moltiplicano anche se Crawford, nel suo ruolo di meccanico, si indigna per gli “strati di merdaccia elettronica” accumulati nelle moto di oggi, al contrario della Honda 305 Super Hawk degli anni Settanta di Pirsig.
Da un lato le nuove tecnologie ci rendono passivi e impotenti (se il computer si guasta, sostanzialmente non c’è altro da fare che buttarlo e comprarne uno nuovo) però esse aprono anche possibilità di trasformazione dall’interno dei mestieri tradizionali. “Fare agricoltura oggi, o essere un artigiano, non è il ritorno a un passato antico. Tutt’altro” sostiene l’economista Marco Bettiol, “Come ha evidenziato Carlo Petrini, significa fare ricerca, innovare reinterpretando la tradizione. Altro che limitarsi a zappare la terra: l’agricoltore di oggi usa l’iPad e Facebook”.
Lo vediamo in un bellissimo libro a fumetti di Etienne Davodeau, Gli ignoranti. Vino e libri: diario di una reciproca educazione in cui un disegnatore segue per mesi il lavoro di un viticoltore, scoprendo l’incredibile ampiezza delle conoscenze necessarie per produrre del vino, soprattutto del buon vino. In sostanza, scrive ancora Bettiol, viene meno “la separazione netta tra professionalità ad alta intensità di conoscenza (astratta) e professionalità manuali (...) aprendo nuovi scenari sul fronte del lavoro e offrendo la possibilità per la definizione di nuove attività imprenditoriali”. Se magari recuperassimo quei torni e quelle frese gettate vie dai nostri istituti tecnici già vent’anni fa? Forse scopriremmo che c’è vita oltre il telefonino.
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Fabrizio Tonello è docente di Scienza politica presso l’università di Padova, dove insegna, tra l’altro, un corso sulla politica estera americana dalle origini ad oggi. Ha insegnato alla University of Pittsburgh e ha fatto ricerca alla Columbia University, oltre che in Italia (alla SISSA di Trieste, all’università di Bologna).
Ha scritto L’età dell’ignoranza (Bruno Mondadori, 2012), La Costituzione degli Stati Uniti (Bruno Mondadori, 2010), Il nazionalismo americano (Liviana, 2007), La politica come azione simbolica (Franco Angeli, 2003).
Da molti anni collabora alle pagine culturali del Manifesto.
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