In aumento in tutto il mondo il fenomeno per cui i ceti poveri affidano ai miliardari la salvezza dei propri Paesi.
M. Morini, Trump & Co., pref. F. Tonello, Castelvecchi 2017
23 Agosto 2017 | di Sebastiano Leotta
La crisi delle strutture tradizionali della rappresentanza politica come i partiti di massa, di fronte a fenomeni come la globalizzazione e ai suoi effetti più perversi, ha fatto emergere leader che provengono dall’esterno dei partiti stessi. Naturalmente Berlusconi è l’archetipo nazionale dell’outsider che emerge da situazioni di crisi. In questo caso per l’ex presidente del consiglio l’occasione è stata innanzitutto la dissoluzione della Prima Repubblica stretta tra crollo del muro berlinese e Tangentopoli. Ultimo in ordine di tempo è il presidente degli Stati Uniti Donald Trump che ha in comune con Berlusconi non solo l’essere miliardario, ma soprattutto il provenire dal di fuori del mondo politico. Presentandosi come alternativa alle usurate oligarchie del potere americano e sfruttando i risentimenti anti-sistema di un sempre più vasto elettorato, Trump è riuscito in un’impresa che all’inizio solo pochi ritenevano possibile.
Tuttavia si può ipotizzare con buona probabilità che se Trump si fosse presentato attorno agli anni Novanta come candidato alla Casa Bianca avrebbe fatto la fine di Ross Perot nel 1992. Presentandosi adesso, in un tempo di recessione economica e come un outsider del Partito Repubblicano, puntando sulla propria diversità dai politici di professione è riuscito a diventare presidente servendosi di demagogia, menzogne e razzismo sublimato nel motto America First.
Marco Morini, del dipartimento di Scienze politiche dell’università di Padova, in questo libro tenta una prima comparazione, con una ricca messe di dati, dei profili di alcuni miliardari che hanno tentano la via della politica. Registrandone somiglianze e differenze, lo studioso ne prende in considerazione cinque, forse un campione troppo esiguo per stabilire tendenze storiche, ma sufficiente a fissare come convitati di pietra sullo sfondo del saggio il problematico rapporto tra denaro e democrazia e le mutazioni in corso del potere politico mondiale.
Come scrive Morini: «negli ultimi anni in molti paesi sempre più miliardari non solo hanno cercato di influenzare la politica, ma sono entrati in politica. Sebbene si tratti di un fenomeno ancora largamente poco studiato, specie in ottica comparata, l’ingresso dei miliardari nell’arena elettorale ha già trasformato la politica di varie nazioni di tutto il mondo. Dal caso di Berlusconi in Italia, a quelli di Perot e Bloomberg negli stati Uniti,Thaksin Shinawatra in Thailandia, Piñera in Cile, Macri in Argentina, Radončić in Bosnia-Erzegovina, Blocher in Svizzera, Poroŝenko in Ucraina [...] lo scopo è quello di mettere in luce analogie e differenze nelle storie dei cinque miliardari- prima e dopo il loro ingresso in politica». Morini seleziona le storie di Berlusconi e di Trump, del thailandese Thaksin, dell’argentino Macri e di Piñera, cercando di far emergere la silhouette comune del miliardario in politica, infatti vengono analizzati la ricchezza, i conflitti d’interessi, la campagna e la retorica elettorale, le loro idee economiche e le tirate anti-establishment (aspetto particolarmente vistoso, secondo Morini, nei loro discorsi di stampo populista).
Fatto salvo il metodo storico- politico, credo che personalità come quelle di Berlusconi e Trump vadano anche analizzate nella stessa maniera che Svetonio, nel De Vita Caesarum, usa per gli imperatori romani, raccogliendo ogni sorta di tic e di bizzarrie, fino ai pettegolezzi: si pensi alla satiriasi berlusconiana, al riporto barocco di Trump e ai suoi tweet compulsivi. Nel caso di quest’ultimo persino il cronachista dei cesari si sarebbe trovato in difficoltà a selezionare il materiale biografico sterminato offertogli dal tycoon americano.
Tuttavia il segreto del fascino che Trump, e i miliardari come lui, esercita sugli elettori deve essere questo: The Donnie ha rappresentato l’unica via d’uscita dalla fortissima crisi sociale che ha colpito l’America rurale e i ceti medi; questo devono aver pensato gli elettori di tradizione democratica del Wisconsin, della Pennsylvania e del Michigan che alla fine gli hanno dato i voti decisivi per vincere le elezioni presidenziali del novembre 2016.
Più che elaborare palinsesti demonologici per figure come Trump o Berlusconi, bisogna capire come siano diventati formidabili macchine per catturare il consenso di uomini e donne e ridicolizzare politici di lungo corso come Hilary Clinton.
Del resto lo stesso Morini scrive: «il vero grande tratto comune di Trump & Co. è quello di promettere di condurre l’azienda paese così come hanno condotto le loro imprese di successo. Essere il CEO (Chief Executive Officer) dell’attività del governo, trasferendo alla politica il loro stile d’impresa».
Tra gli aspetti affrontati da Morini,come si diceva, ci sono le strategie populiste adottate dai cinque politici-miliardari. Nello specifico egli afferma 1. che «queste strategie siano da considerarsi necessarie in contesti politici personalizzati e disillusi» e 2. che i sistemi politici stiano virando «verso un’ostentata visibilità del leader [...] una comunicazione politica semplificata e diretta, e verso un’insofferenza per i corpi intermedi», da qui il mito della decisione che supera le asprezze e le cosiddette lungaggini previste dalle leggi delle complesse macchine statali e dalle norme costituzionali, o l’insofferenza per la critica della stampa.
Diversamente dai leader dei populismi ottocenteschi, che erano espressioni degli esclusi e degli emarginati di sempre, i leader dei populismi attuali, miliardari e no, si legano a settori della società che sono recentemente espulsi dalle politiche economiche neoliberali, strati sociali impoveriti e declassati e che non si riconoscono più nelle consuete forme politiche.
Come ha scritto Marco Revelli in un lucido pamphlet uscito per Einaudi, la lotta di classe attuale è tra il popolo per definizione buono e l’élite privilegiata ed egoista, ed è in questo solco che il popolo attende l’emergere di qualcuno, sia pure un miliardario, che ne raccolga i risentimenti, anche legittimi, contro finanza, banche ma anche contro immigrati, gay, lesbiche, ecc..
Come scrive Fabrizio Tonello nella prefazione al volume «il disprezzo per la casta alimenta la domanda di soluzioni autoritarie, di un outsider, di un uomo forte che ‘faccia funzionare le cose».
Periodicamente,per concludere, pare che ritorni come un fastidioso e pericoloso revenant l’uomo forte, che decide senza discussioni né critiche di sorta. Forse nel caso dei miliardari presi in considerazione da Morini si può ricordare, senza cadere in grossolane analogie storiche, che l’attesa dell’uomo risolutore in un tempo di crisi non è una novità, infatti nel 1921, un intellettuale e storico liberale come Giustino Fortunato, scriveva riferendosi a Mussolini, che «l’Italia aspettava il provvidenziale intervento di un Uomo con l’u maiuscola- che sappia finalmente riportare il paese nell’ordine».
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