A me sembra in realtà che oggi sia in atto, non solo in Italia, ma in tutti i paesi dell’occidente, una vera a propria distruzione della scuola. E per estremo paradosso si pretende di inscrivere tutto ciò nell’alveo di una democratizzazione della stessa scuola
28 Ottobre 2017 | di Giulio Ferroni
È venuto allora il momento dello smartphone: conseguente e luminoso strumento della scuola 2.0 e dei suoi corollari, agile e veloce cornice, stimolo, veicolo, modello di apprendimento, di accaparramento di scienza e di sapere, il solo adeguato all’esigente umore dei nativi digitali, ai loro nuovi orizzonti antropologici e tecnologici, alla vertiginosa dilatazione dell’esperienza che si disegna per il loro futuro. C’è un’apposita commissione che sta studiando le modalità di questa inserzione nella quotidianità della scuola di un oggetto che già fuori della scuola, spesso anche negli interstizi del tempo scolastico, costituisce una delle presenze più invadenti nella vita di molti ragazzi, spesso già dalla prima infanzia. Tutto ciò consegue ad alcuni presupposti che circolano in una sorta di visione pubblica, imposta dai grandi colossi dell’informatica e condivisa pienamente dai politici e dai loro consiglieri. Provo ad elencarli schematicamente:
1) L’informatica è la condizione principale dell’economia, della cultura, della scienza.
2) Il sapere si trasmette per via digitale.
3) Attraverso Internet ciascuno può costruire il proprio sapere, personalizzandolo secondo le proprie originali esigenze, senza piegarsi alla fissità del libro e all’autorità del docente: è l’orizzonte di una cultura on demand e orientata verso il problem solving.
4) I media informatici sono formidabili strumenti di condivisione di esperienza: strumenti “democratici”, in opposizione alla cultura “alta” della tradizione, che non risponde più alle esigenze del presente.
5) I nativi digitali hanno uno spontaneo dominio dei nuovi mezzi e linguaggi tecnologici, ne sanno trarre profitto nel modo più pieno.
6) La scuola deve andare incontro ai modelli mentali e alle forme culturali in uso nel mondo giovanile: le forme della scuola devono corrispondere a quelle della vita quotidiana; scolari e studenti devono trovare nella scuola le stesse forme di rapporto che si danno fuori di essa.
7) Il rapporto col sapere deve essere facile, scorrevole, veloce, divertente.
Questi presupposti, assunti in maniera acritica, come dati incontrovertibili e indiscutibili, si risolvono in un senso comune totalmente subalterno al più banale uso di massa della tecnologia e alle invadenti proposte del mercato, che equivale ad una desolante mancanza di buon senso. Nell’idea dell’immissione dello smartphone nella quotidianità scolastica si dà una vera e propria perdita di capacità di distinzione: una definitiva negazione di ogni reale funzione formativa della scuola, una cancellazione del suo compito di crescita personale, di discriminazione critica, di offerta di qualcosa di “altro” e di essenziale rispetto a ciò che i giovani considerano proprio. L’ambiente scolastico, le sue modalità di relazione, l’esercizio dello sguardo, della stessa manualità, verrebbero a raggiungere una definitiva identificazione con l’ambiente esterno, con la rete della comunicazione in cui tutti siamo immersi e in cui questi smartphone assumono sempre più un rilievo dominante (basta guardare quanta gente e quanti ragazzi smanettano su di essi anche nei più affollati percorsi in bus o in metropolitana). L’agilità d’uso dello smartphone permette del resto ogni sorta di deviazione dell’attenzione, tra giochi, condivisioni, navigazioni (che dire della vecchia “battaglia navale”!), che possono rendere molto improbabile qualsiasi concentrazione sull’eventuale destinazione didattica.
Ma fin troppo evidente è l’assurdità di questo cieco affidamento ad una tecnologia smart, che interagisce in velocità con il tatto e con la vista, che dà l’illusione di una disponibilità totale del mondo e dell’esperienza, mentre conduce ad una sospensione ed evaporazione totale dell’esperienza. Una pedagogia e una psicologia non corrive hanno da vari punti di vista messo in evidenza i danni irreversibili prodotti da questa digitalizzazione universale; e recentemente si sono già letti nella stampa molti interventi che hanno richiamato gli sperimentatori ministeriali al buon senso, alle reali necessità della scuola (ne ricordo uno, stranamente senza firma, sul Domenicale de “Il Sole 24 Ore” del 24 settembre). Sono ragioni ben evidenti su cui anche a me è capitato di insistere più volte e di cui gli adepti della pessima “Buona scuola” non tengono nessun conto. La loro fedeltà ai presupposti sopra elencati non tollera contraddizioni: essi procedono per la loro strada, senza rendersi conto che la scuola del futuro, di un futuro tanto difficile e contraddittorio come quello che si annuncia, di ben altro avrebbe bisogno (certo anche di una pratica responsabile di strumenti tecnologici, di un uso critico dell’informatica, non dell’assoluta invadenza che le attribuirebbe l’uso dello smartphone in classe).
A me sembra in realtà che oggi sia in atto, non solo in Italia, ma in tutti i paesi dell’occidente, una vera a propria distruzione della scuola: seguendo le direttive delle grandi aziende informatiche, le nuove pratiche scolastiche sembrano tendere verso la formazione di un pubblico di consumatori subalterni, proiettati verso l’illusione di un perpetuo movimento in avanti, incapaci di riconoscere la materiale consistenza del mondo, flessibili in quanto disposti ad adeguarsi all’aleatorietà dei processi economici. E per estremo paradosso si pretende di inscrivere tutto ciò nell’alveo di una democratizzazione della stessa scuola, sull’onda residua e ogni tanto celebrata di istanze di apertura alla realtà e all’esperienza concreta, propugnate dalle pedagogie sessantottesche.
Sono sempre più convinto che, di fronte a questo orizzonte, sarebbe necessario trovare spazio, nella scuola e fuori della scuola, per un’efficace resistenza critica, certo difficile, ostacolata dal furore normativo delle menti ministeriali: il futuro che si prospetta ha urgente bisogno di una scuola seria, non smart né on demand, capace di confrontarsi con la memoria non evanescente del passato e con il rigore della scienza.
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GIULIO FERRONI è storico della letteratura, critico letterario, scrittore. Dal 1982 al 2013 ha insegnato Letteratura italiana alla «Sapienza» di Roma. “A Ferroni si devono saggi che spaziano da Machiavelli al Novecento, dall’Aretino ai contemporanei, dall’analisi del comico a una Storia della letteratura italiana; saggi che colgono nei testi, con grande acutezza, il volto del mondo e del suo divenire, il rapporto dell’opera e del suo linguaggio con le trasformazioni del costume, dei valori, della politica, della tecnologia” (Claudio Magris). Tra le sue opere, la Storia della letteratura italiana in 4 volumi, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura ; La scuola sospesa editi da Einaudi; La scena intellettuale. Tipi italiani, Passioni del Novecento e Machiavelli, o dell’incertezza pubblicati da Donzelli. Scritture a perdere (Laterza, 2010), Gli ultimi poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto (Il Saggiatore, 2013). Per la Salerno Editrice ha pubblicato, nel 2008, Ariosto, vincitore del premio «De Sanctis» 2009.
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Giulio Ferroni, ne La scuola impossibile, Salerno Editrice, 2015, racconta, in finale, l' episodio di S.Cassiano, martirizzato ad Imola all' inizio del IV secolo. Odiato dagli allievi per la sua severità, fu condannato dal pretore ad essere ucciso da loro stessi, che rabbiosamente lo colpirono con le tavolette di scrittura e lo punsero a lungo con i loro calami, compiaciuti di vendicarsi per le fatiche didattiche a cui egli li aveva sottoposti.
E così si conclude il libro Dalle tavolette di cera ai tablet, sempre di tabellae si tratta: ma più probabile che a un simile scopo oggi possano essere usati i libri, quell’ antiquato materiale cartaceo a cui con soddisfazione di tutti subentreranno i computer e le connessioni perpetue della Scuola@2.0.....
La " profezia" di chi sa vedere nel presente.
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