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Numero 5 - Novembre 2017
Numero 5 Novembre 2017

Non per la scuola ma per la vita (lunga)

Negli Stati Uniti, grandi sono le differenze nelle aspettative di vita tra laureati e non laureati. Anche nel vecchio continente però il tasso di mortalità è inversamente proporzionale al titolo di studio. Una grave disuguaglianza sociale di cui si parla poco


28 Ottobre 2017 | di Marco Morini

Non per la scuola ma per la vita (lunga) Nelle scienze sociali una delle più significative correlazioni statistiche è quella tra grado di istruzione e livelli di mortalità. Più è elevato il titolo di studio, più è lunga l’aspettativa di vita. E si tratta di una regola valida e dimostrata almeno in tutti i paesi occidentali. Negli Stati Uniti, in particolare, un maschio bianco laureato vive in media tredici anni in più rispetto a un uomo bianco non laureato. La speranza di vita è infatti di 80,4 anni contro 67,5. E tra donne laureate e non laureate lo scarto è di oltre dieci anni (in questo caso è 83,9 contro 73,5). Si tratta di dati che superano le distinzioni razziali e che, soprattutto, stanno aumentando col passare del tempo e con l’analisi sull’aspettativa di vita di successive coorti di studenti.
I dati del National Vital Statistics System mostrano come i cittadini statunitensi bianchi venticinquenni e con meno di dodici anni di scuola all’attivo abbiano a oggi un’aspettativa di vita di 43,6 anni, mentre nel 1997 la stessa era di 47 anni. Le donne bianche nate nel 1992 e con eguale carriera scolastica hanno un’aspettativa di vita di 49,2 anni, a fronte dei 54,5 che avrebbero avuto venti anni fa. Nelle minoranze etniche le differenze sono minori seppur anch’esse in espansione: tra gli afro-americani, per esempio, un uomo laureato ha un’aspettativa di vita di 8,6 anni superiore a un non laureato. Mentre tra le donne il gap è pari a 9,3 anni. Trattandosi di comunità che risultano più omogenee per livello di istruzione è naturale che i dati siano meno clamorosi di quelli riscontrati nella maggioranza bianca. Si tratta tuttavia di numeri egualmente impietosi e anche qui in aumento tendenziale verso sempre maggiori diseguaglianze.
Essendo il livello di istruzione spesso correlato alle differenze salariali, il suo impatto in un paese come gli Stati Uniti, dove non è presente un sistema sanitario pubblico ad accesso universale, è enorme. Le migliori cure sono a disposizione solo dei cittadini più benestanti che a loro volta sono anche quelli con i titoli di studio più elevati. E’ un circolo vizioso, perché negli Stati Uniti proseguire gli studi dopo il diploma è particolarmente costoso. Al netto delle borse di studio e del sistema dei prestiti studenteschi è quindi evidente che le diseguaglianze sociali “patite” alla nascita siano destinate a rimanere e a perpetuarsi alle successive generazioni.
Il caso americano è noto e documentato, ma vi sono ricerche che mostrano come anche altrove si stiano affermando le stesse tendenze. Un recente studio condotto in 23 paesi dell’Ocse ha evidenziato come la differenza di aspettativa di vita tra venticinquenni laureati e coetanei con il livello di istruzione minimo obbligatorio sia di 8 anni tra gli uomini e di 5 anni tra le donne. A 65 anni, la differenza è di 3,5 anni tra gli uomini e di 2,5 tra le donne, sempre a favore degli individui più scolarizzati. In paesi come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Lettonia i dati sono addirittura in linea con quelli statunitensi: maschi laureati 25enni hanno un’aspettativa di vita di 11 anni superiore a quella dei coetanei che hanno frequentato la sola scuola dell’obbligo. In paesi come Israele, Portogallo, Messico, Turchia e Nuova Zelanda la differenza è invece inferiore ma pur sempre attorno ai 5 anni sia per gli uomini che per le donne. Se nel caso statunitense la relazione istruzione-reddito è saliente, includendo altri paesi emerge quindi anche un dato “culturale”: le persone con meno anni di studio sembrano più inclini a sviluppare fattori di rischio come il fumo e a soffrire di un’incidenza maggiore di problemi circolatori e cardiaci.
E in Italia? Per anni sono mancati studi sistematici di questo tipo, ma nel 2016 l’Istat ha presentato un rapporto incentrato sulle diseguaglianze nell’aspettativa di vita secondo il livello di istruzione, che ha rilevato i tassi di mortalità standardizzati per titolo di studio, genere, ripartizione territoriale e cause di morte riferiti al periodo 2012-2014. Come negli altri paesi Ocse, lo svantaggio per titolo di studio in termini di tasso di mortalità ha un’incidenza che aumenta al diminuire del titolo di studio. Nella popolazione fra i 25 e gli 89 anni si osserva infatti una mortalità per gli uomini che hanno conseguito al massimo la licenza elementare di 1,6 volte maggiore rispetto a quello dei coetanei laureati e di 1,3 volte superiore per le donne con titolo di studio basso rispetto a quelle con titolo di studio alto.
In generale, tra gli uomini, rispetto alle donne, è più netto lo svantaggio per diseguaglianze nel titolo di studio. Le distanze più evidenti nella speranza di vita alla nascita rispetto a chi ha conseguito una laurea o un dottorato di ricerca si osservano tra gli uomini con un titolo di studio basso (nessun titolo o licenza elementare) con una differenza di 5,2 anni. Per le donne la differenza nella speranza di vita per titolo di studio, sempre alla nascita, è invece di 2,7 anni. L'effetto si mantiene rilevante anche in età avanzata (65 anni) con un vantaggio per uomini e donne con titolo di studio elevato rispettivamente di 2,2 e 1,3 anni di vita. Un andamento analogo si riscontra per quasi tutte le cause di morte. Particolarmente alto l'impatto dello svantaggio sociale per patologie quali epatite cronica e cirrosi epatica con un incremento di mortalità di 3,5 volte per gli uomini e di 2,3 per le donne tra quanti hanno un basso titolo di studio rispetto a chi ha una laurea. Lo svantaggio tra le donne con basso grado di istruzione è inoltre particolarmente pronunciato nel Sud, con una mortalità riscontrata che è di 3,4 volte maggiore rispetto alle laureate.
Anche l’Italia presenta quindi statistiche che evidenziano una correlazione tra basso titolo di studio e minor aspettativa di vita. Per fortuna non ancora su livelli statunitensi, ma certamente su numeri già preoccupanti. E la stessa tendenza si avverte nel resto dell’Europa, anche in paesi dove le diseguaglianze sociali e le barriere d’accesso all’università non sono così esasperate come negli Stati Uniti. Se già così i numeri appaiono emblematici nella loro semplicità, appare paradossale se non ancor più drammatico il fatto che manchi una seria riflessione sul tema. Sia a livello politico che di opinione pubblica e mobilitazione dal basso. E’ vero che la critica alle diseguaglianze sociali ha ormai ottenuto ascolto e interesse nel dibattito culturale e politico. Ma le soluzioni offerte sembrano concentrarsi esclusivamente sull’ambito dell’occupazione e dei salari, che sono certamente fondamentali e parte della questione, ma non sono la causa primaria dei dati citati sopra. In Italia, il dibattito attuale sull’università sembra limitarsi allo sciopero dei professori, ai concorsi truccati e ai test d’ingresso a numero chiuso. Serie proposte sul rafforzamento dell’università pubblica, sul suo finanziamento e sulle politiche di facilitazione all’accesso all’istruzione superiore sono latenti ed è difficile immaginare che possano diventare centrali in una campagna elettorale che sta ormai per cominciare.







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Numero 5 - Novembre 2017
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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