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Intervista a Frank Furedi. Traduzione di Camilla Dotti. Ha collaborato Ester Trevisan
28 Ottobre 2017 | di Renza Bertuzzi
D. Professor Furedi, cosa pensa dell’ introduzione dello smartphone nelle classi come strumento didattico (recente decisione della ministra dell’istruzione in Italia) perché -si dice- la scuola deve stare al passo con i tempi?
R. Sfortunatamente, non ci sono soluzioni tecniche che possano risolvere i problemi dell’insegnamento. Recentemente i politici si sono avvalsi di tattiche, come dare degli ipad ai bambini, ma senza risultati positivi. In questo caso la tecnologia semplicemente distrae la classe. Gli studenti hanno bisogno di un insegnamento che li ispiri e che sia di qualità, non tanto di strumenti didattici.
D. Qual è o quale dovrebbe essere il primo compito dell’istruzione?
R. L’istruzione dovrebbe fornire agli studenti conoscenze disciplinari, farli familiarizzare con l’eredità intellettuale del passato e prepararli a conquistare gradualmente l’indipendenza intellettuale.
D. Da tempo nella scuola di tutta Europa le competenze hanno preso il sopravvento sulle conoscenze, e il sapere astratto viene considerato inopportuno. Cosa ne pensa?
R. L’insegnamento della conoscenza precede logicamente l’acquisizione delle competenze. La conoscenza offre il contesto per sviluppare le competenze, che consistono per esempio nel comunicare e riflettere. Nel nostro confuso mondo in continuo cambiamento, l’acquisizione della conoscenza e la comprensione dell’eredità intellettuale del passato sono più importanti che in ogni altra epoca. La cosiddetta conoscenza astratta aiuta gli allievi a concettualizzare e analizzare. Le competenze vengono date attraverso l’esercizio e ciò di cui hanno bisogno i bambini è l’istruzione.
D. Star bene a scuola è uno slogan in voga da molti anni nella scuola italiana, con cui si intende puntare più sulla socializzazione e sulla motivazione individuale. Condivide questo orientamento?
R. Ovviamente tutti vogliono che gli studenti stiano bene, ma non è l’obiettivo della scuola. Il concentrarsi sul “sentire” ha portato alla promozione dell’educazione terapeutica, che usa tecniche psicologiche per insegnare agli allievi. Questo approccio però distoglie l’energia dal fornire una conoscenza disciplinare, che è essenziale anche quando non fa stare bene gli studenti. In ogni caso il miglior modo di motivare gli allievi è impartire loro lezioni dense di significato che li aiuti a pensare.
D. Oggi i docenti devono confrontarsi con molte figure di corredo (psicologi, pedagogisti ed altri esperti), lei ritiene che tutto questo sia utile alla scuola e all’insegnamento?
R. In alcuni casi è utile collaborare con altri professionisti. Al momento però appoggiarsi ai cosiddetti esperti rischia di trasformare la scuola in una clinica o in un laboratorio di ingegneria sociale che mette solo a rischio l’istruzione reale.
D. Fatica sprecata si intitola, nella traduzione italiana, un suo testo. Lei crede che ci sia ancora qualcosa da tentare per far sì che questa fatica diventi produttiva?
R. Sì, rimango ottimista pensando al potenziale dei giovani di sviluppare la loro curiosità, il pensiero critico e la saggezza. Ciò che è necessario è uno stile di insegnamento che non lusinghi gli studenti ma che ne alzi le aspettative. Per questo dobbiamo cambiare il modo in cui gli insegnanti vengono formati, essi devono diventare autorità nella loro materia e devono essere incoraggiati ad usare e sviluppare il loro giudizio personale.
D. Un tempo, l’insegnante era un intellettuale a cui era demandato il compito di trasmettere la cultura. Oggi sta diventando un operatore, cioè una figura obbligata a mettere in pratica ciò che altri hanno deciso. Può o deve, secondo lei, il docente essere un intellettuale? Se sì, quali strade bisogna percorrere?
R. Trovo questa domanda difficile. Nella mia esperienza, le persone che amano insegnare hanno sempre aspirato ad essere intellettuali. La maggior parte dei bravi insegnanti non sopporta il tentativo di trasformarli in impiegati. Sono arrivato alla conclusione che perché avvenga un cambiamento reale dobbiamo correggere la pedagogia che usiamo. Al momento la pedagogia è troppo influenzata dalla psicologia e dalle richieste dell’ingegneria sociale che valorizzano la ricerca delle competenze che derivano essenzialmente dall’ambito amministrativo e del business. Abbiamo bisogno di una pedagogia che insista su un punto fondamentale, ovvero che l’istruzione è importante di per sé. Abbiamo bisogno di una pedagogia che sia sistematicamente legata alla conoscenza disciplinare e infine abbiamo bisogno di insegnanti che siano “authoritative”, flessibili e capaci di rispondere al mutare dei bisogni della classe utilizzando i loro strumenti di valutazione.
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Frank Furedi, è professore emerito di sociologia all'Università del Kent, Regno Unito. Ha studiato i nodi problematici della vita culturale contemporanea, come la paura nei confronti di un futuro incerto, la percezione del rischio nell’era post 11 settembre, la vulnerabilità nell’incertezza dei ruoli, soprattutto educativi, la nuova fondazione del concetto di autorità morale nelle società occidentali della postmodernità. Spesso presente nei dibattiti culturali e televisivi inglesi, ha pubblicato diversi volumi, tra i quali sono stati tradotti in italiano, , Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (2005) e Che fine hanno fatto gli intellettuali? I filistei del XXI secolo (2007).
Fatica sprecata. Perchè la scuola oggi non funziona Vita e Pensiero 2012 è un testo molto importante in cui Furedi analizza "il paradosso dell'istruzione": mentre investiamo sempre di più nell'insegnamento, e sempre di più vorremmo ricavarne, le nostre scuole chiedono sempre meno agli studenti. Basse aspettative nei confronti dei ragazzi, la tendenza a infantilizzarli attraverso una forte psicologizzazione del rapporto educativo e un infinito maternage, la ricerca ossessiva delle loro motivazioni, il declinare dell'autorità degli adulti producono l'esatto contrario di ciò a cui l'istruzione dovrebbe mirare, cioè la formazione di persone autonome, critiche, capaci di una propria visione del mondo.
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