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Numero 1 - Gennaio 2018
Numero 1 Gennaio 2018

Dire di No ...

...a questa nuova scuola del conformismo e non dell’ autonomia intellettuale e per di più asservita alle esigenze del mercato del lavoro. Per questo è necessario un lavoro di organizzazione profondo che chiami in causa, innanzitutto, l’associazionismo professionale dei docenti e su tutti la Gilda. Se si vuole dire no, bisogna allora concepire l’associazionismo professionale degli insegnanti su basi completamente diverse


28 Dicembre 2017 | di Adolfo Scotto di Luzio

Dire di No ... È venuto il momento che gli insegnanti dicano di no. Un no chiaro, a voce alta, senza incertezze. Lo devono pronunciare a difesa della scuola democratica, della sua salda collocazione alla base del patto costituzionale degli italiani, dove la scuola custodisce l’idea di una società in cui tutti, senza distinzioni di sorta, siano messi in condizione di partecipare alla pari alla discussione degli affari pubblici. Dire di no significa, dunque, difendere il principio per il quale la democrazia esige la formazione del sovrano. Il soggetto popolare. Non si limita cioè a consacrarne formalmente il potere, ma ne qualifica il modo di stare nella sfera pubblica; rende di fatto possibile la sua partecipazione politica, introducendo ogni volta la generazione crescente all’ arte civile del discorso. Per questo è necessario avviare i giovani ad un percorso di studio che ponga le basi di una adeguata formazione intellettuale.
Niente di tutto questo governa le politiche scolastiche attuali, che obbediscono invece ad una serie di convinzioni diametralmente opposte. La scuola democratica è sorta sul terreno della politica. La nuova scuola è stata sradicata dalle basi della sua fondazione storica e ricollocata al servizio delle ragioni dell’ economia e di quel concetto vago e ambiguo che è l’«impiegabilità» dei giovani. Badate bene. Nessuna scuola, tanto meno quella democratica, si è pensata al di fuori del nesso che stringe processi formativi e professione. Nessuna scuola tuttavia è stata mai così pesantemente asservita alle esigenze del mercato del lavoro.
Il brutale funzionalismo che pretende attualmente di governare il ciclo formativo delle giovani generazioni determina un drastico spostamento dei pesi interni al sistema scolastico da quello che un tempo si chiamava il training a ciò che oggi si indica come trainability, la disponibilità cioè a lasciarsi addestrare. Questo spostamento corrisponde all’ idea generale che, in funzione degli interessi dell’ economia, la scuola assolva meglio al suo compito se le componenti cognitive dei processi formativi arretrino per lasciare spazio ad un più efficace modello «affettivo». La scuola cioè è più efficace se forma il carattere dei suoi allievi in maniera da lasciarsi plasmare secondo le richieste che provengono dal sistema degli impieghi.
La svalutazione dell’ insegnamento disciplinare, la banalizzazione dello studio attraverso la cosiddetta didattica per competenze, la pretesa di insegnare in una lingua straniera una materia curricolare, riducendo fatalmente i contenuti dell’ insegnamento all’ insignificanza di una sintassi elementare, fino alla decisione, che non ho difficoltà a definire oscena, di introdurre l’utilizzo dello smartphone in classe, e poi l’enfasi messa sulla pratica, sull’ alternanza, insomma tutto ciò che viene da fuori della scuola, dicono questo: ciò che conta nella formazione di un individuo ha meno a che fare con l’edificazione delle basi intellettuali dell’ autonomia personale e molto di più con la disponibilità da parte di questo stesso individuo a fornire risposte pronte e conformi alla nuova organizzazione del lavoro. La nuova scuola è una scuola del conformismo non dell’ autonomia personale.
Ora, questa nuova concezione della scuola esige un nuovo corpo insegnante. Il terreno del conflitto scolastico è oggi la definizione del dispositivo di selezione e reclutamento del personale docente. È qui che si gioca la partita decisiva. Ed è qui, soprattutto, che operano in maniera più drastica i meccanismi della cosiddetta «buona scuola».
La scuola italiana vivrà nei prossimi anni una ricambio generazionale destinato a segnare al tempo stesso un drastico mutamento di orizzonte politico-ideologico. Esce, ed uscirà, una generazione di professori formata nel quadro di una visione generale delle istituzioni educative che ha imparato a concepire la sua funzione in relazione ad un universo di valori saldamente collocato sul terreno di una idea della democrazia nutrita da una intensa partecipazione di massa. Al contrario, i nuovi insegnanti sono figli di una visione radicalmente mutata. La loro identità è meno legata all’ autonomia della sfera culturale, all’ idea cioè che il buon professore sia innanzitutto colui che risponde alle richieste «oggettive» della conoscenza disciplinare. Il nuovo statuto dell’ insegnante è tutto risolto sul terreno didattico performativo. Il buon insegnante, nella nuova versione di una scuola concepita per funzionare a basso regime, è innanzitutto un esperto di pratiche didattiche.
In questo quadro non tutto è perduto. Non ancora, per lo meno. In una società che ha ormai raggiunto livelli elevati di frammentazione, il corpo docente rappresenta l’ultimo soggetto collettivo organizzabile e mobilitabile su basi ideologico-culturali. Per questo è necessario un lavoro di organizzazione profondo che chiami in causa, innanzitutto, l’associazionismo professionale dei docenti e su tutti la Gilda, che conserva al proprio interno un nucleo di sensibilità culturale che non deve essere disperso.
È bene però intendersi e parlare chiaro, almeno fra di noi. Un discorso di verità chiede la scuola. Se siamo infatti arrivati a questo punto lo si deve anche alla subalternità mostrata dalla categoria di fronte alle questioni dell’ organizzazione del lavoro. Per anni la scuola italiana si è raccontata e si è lasciata raccontare attraverso la figura del precariato scolastico. La «buona scuola» è anche il frutto di questa scelta strategica che si è rivelata folle. Dopo aver insistito per anni che la questione della scuola italiana erano i poveri professori senza un impiego fisso, chi poteva veramente rifiutare l’ offerta del governo che prometteva la stabilizzazione di  decine di migliaia di docenti in una volta sola?
Non dobbiamo mai dimenticare che il provvedimento governativo che ha messo capo alla legge 107 è stato originato da un ricorso sindacale presso la corte di giustizia europea.
Se si vuole dire no, bisogna allora concepire l’associazionismo professionale degli insegnanti su basi completamente diverse. Bisogna mettersi allo studio della nuova questione scolastica così come si presenta al passaggio tra XX e XXI secolo; ripensare profondamente gli ultimi vent’anni di politiche scolastiche nel nostro paese in relazione sia al contesto europeo ma anche, e direi soprattutto, in relazione ai termini storici della crisi italiana.
La crisi scolastica nel nostro Paese è figlia infatti di una più generale crisi culturale della prospettiva nazionale. Direi che è figlia del vuoto lasciato all’ inizio degli anni Novanta dal collasso delle strutture politico-culturali della Prima Repubblica. Con i partiti sono venute meno strutture di collegamento, giornali, riviste, tutto un tessuto di circolazione delle idee.
La scuola, i suoi docenti, disabituati da troppo tempo a concepire il proprio lavoro in termini intellettuali e di organizzazione della cultura, non sono stati in grado di fronteggiare quel traumatico passaggio storico da una posizione di indipendenza. Non avevano idee per opporsi al processo di disgregazione. Continuavano a pascersi, quando lo facevano, dei vecchi luoghi comuni del democraticismo pedagogico degli anni Sessanta e Settanta. Senza capire che quel modello culturale era finito e mai era stato veramente in grado di concepire la funzione dell’ istituzione scolastica all’ altezza dei suoi compiti generali. Dire no è più faticoso che assentire. Per dire no bisogna riprendere pazientemente il filo di un lavoro culturale interrotto ormai molti decenni fa.
 
 
 
 


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Numero 1 - Gennaio 2018
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
Comitato di Redazione:
Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Fabio Barina, Roberto Casati, Rosario Cutrupia, Antonio Gasperi, Marco Morini,
Adolfo Scotto di Luzio, Fabrizio Tonello, Ester Trevisan