Nella scuola che celebra i settanta anni della Costituzione manca proprio l’essenziale: la fiducia nel potere della cultura di portare le persone in luogo diverso da quello in cui sono nate. Se questa è la scuola che celebra i settanta anni della Costituzione repubblicana, allora in questo quadro c’è una presenza abusiva, o della Costituzione o delle nuove politiche scolastiche
01 Marzo 2018 | di Adolfo Scotto di Luzio
La Costituzione dell’Italia repubblicana compie settant’anni. In che rapporto sta con la nostra scuola? La domanda non è così scontata come potrebbe sembrare di primo acchito. Certo la Costituzione è parte integrante della retorica scolastica di questi anni. Eppure, la Costituzione non è stata e non è sempre la stessa. Per quanto la si concepisca e la si proponga, soprattutto agli allievi e ai nuovi insegnanti, come il contenuto di una fede politica e civile, la Costituzione è innanzitutto un oggetto storico. È insieme figlia del proprio tempo e dei suoi limiti e vive nel tempo, esposta agli usi, alle esigenze, alle interpretazioni degli uomini che agiscono all’ interno di circostanze storiche determinate. È difficile, ad esempio, poter immaginare i padri costituenti riconoscersi nella scuola attuale e ritrovare nelle pratiche didattiche ed educative che pur vengono concepite «sulla base» della Costituzione il frutto legittimo dei loro sforzi di settant’anni fa. Ve li figurate Concetto Marchesi o Aldo Moro, che pure nel 1946 aveva appena trent’anni, in mezzo al Clil, all’ alternanza scuola-lavoro, ai Bes? Per non dire della nuova Università.
Il guaio delle celebrazioni è la pretesa di affermare una continuità e una discendenza senza voler nemmeno provare a tematizzare rotture e discontinuità. Tanto per fare un esempio, i padri Costituenti scartarono deliberatamente la possibilità di affrontare la questione che pure si trascinava da tempo della scuola media unica perché erano convinti che, viste le condizioni gravissime di indigenza delle classi popolari, invece di costringere i genitori a mandare i figli a scuola fino ai quattordici anni (l’obbligo formale esisteva dagli anni Venti e cioè dai tempi della riforma Gentile) sarebbe stato meglio favorire l’emigrazione, mettere insomma le classi popolari nelle condizioni di trovare un modo per assicurare la propria sopravvivenza materiale. Alla stessa maniera, noi oggi con una incuranza degna di nota traduciamo il principio che «la scuola è aperta a tutti», solennemente enunciato dall’ articolo 34, in uno sciatto «la scuola è di tutti», non prestando nessuna attenzione alla differenza che evidentemente pure esiste tra la proclamazione di un’opportunità e la perentoria affermazione di uno stato di possesso.
Questo accade non solo perché, come si suol dire, la società è cambiata, ma anche perché ignoriamo (o facciamo finta di ignorare) che la Costituzione italiana oltre a guardare verso il futuro è figlia del passato. È figlia cioè delle culture costituzionali europee degli anni Venti e Trenta. Il principio dell’accesso, per fare un altro esempio, quello in gioco nell’ affermazione della scuola aperta a tutti, si afferma nel costituzionalismo del Vecchio continente a partire dalla fine della Prima guerra mondiale. Lo si trova nell’ Education Act inglese e nella costituzione polacca e, importantissima per le influenze che eserciterà sul dibattito italiano del 1946-1947, in quella della Repubblica di Weimar. Negli anni Trenta, lo stesso principio filtra negli ordinamenti costituzionali dei regimi totalitari. Il nazismo proclama l’élite che esercita le funzioni di comando nella società aperta a tutti i cittadini di tutte le classi sociali e ceti, purché abbiano capacità adeguate. Naturalmente, la condizione fondamentale per accedere alla cittadinanza, nello stato hitleriano, era il fatto di essere di «puro sangue tedesco». Ma è soprattutto nel fascismo italiano che il principio dell’accesso trova una chiara formulazione. Nella terza dichiarazione della Carta della scuola di Giuseppe Bottai si legge, infatti, la prima enunciazione del criterio, che passerà poi nella Costituzione repubblicana, dei capaci e dei meritevoli: «L’accesso agli studi e il loro proseguimento sono regolati esclusivamente dal criterio delle capacità e attitudini dimostrate. I collegi di Stato garantiscono la continuazione degli studi ai giovani capaci ma non abbienti».
I «capaci e meritevoli», appunto. Che fine hanno fatto in questo settantesimo compleanno della nostra Costituzione? La scuola pubblica, per come è oggi concepita, è ancora in grado di riconoscerli? Non c’è neanche bisogno di sottolineare che il criterio esiste unicamente in relazione alla povertà dei mezzi materiali degli studenti. Perché chi ha i mezzi è sempre in grado di valorizzare il talento, le capacità, l’intelligenza e la disposizione allo studio propria e dei propri figli. Ma degli altri? Che ne è ad esempio dei figli degli immigrati? La scuola repubblicana è ancora in grado di sostenere il progetto di vita di un ragazzo nato in Italia da genitori stranieri o di uno sbarcato da solo o con la sua famiglia sulle coste dell’Italia meridionale in questi anni, così come tra gli anni Cinquanta e Sessanta fu in grado di fare con i figli dei suoi contadini poveri?
La patologizzazione della differenza prodotta dalla teorica dei Bes non è un buon segno e non dà nessuna speranza in questo senso. La verità è che la scuola dei nostri anni sembra così impreparata ad accogliere e ad accompagnare i giovani provenienti da famiglie modeste in un luogo diverso da quello in cui sono nati – obiettivo che fu alla base, seppur in forme estremamente selettive della scuola liberale – perché ha essenzialmente affidato questo compito al mercato. La scuola italiana, per la verità le sue dirigenze politico-burocratiche, non ha nessuna fiducia residua nel potere emancipativo della cultura. Cosa che invece stava alla base delle concezioni dei padri costituenti, figli di una Italia che aveva affidato all’ istruzione pubblica, alla scuola gestita dallo Stato, il compito di qualificare da un lato la funzione di direzione politica e sociale esercitata dalle élite (nascere ricchi evidentemente non bastava in quella Italia pure così ferocemente diseguale), innalzando complessivamente i livelli culturali dei ceti popolari subalterni, e di selezionare, dall’ altro, all’ interno di quegli stessi ceti, i più capaci.
Questa spinta fortissima a fare della scuola un motore efficiente della trasformazione morale e intellettuale del paese, opportunamente corretta in vista di una visione più generosa della sfera sociale che si produce con l’avvento della democrazia, ha animato a lungo la scuola dell’Italia repubblicana. Come ho scritto più volte, nessun Don Milani ha fatto per i figli dei contadini quello che hanno fatto per generazioni i maestri e i professori della scuola pubblica, pur tanto vilipesi. Ora questa visione positiva, fiduciosa, del ruolo della cultura e dunque dello studio è venuta meno. Nella scuola che celebra i settanta anni della Costituzione in maniera piuttosto singolare della Costituzione manca proprio l’essenziale, ripeto, la fiducia nel potere della cultura di portare le persone in luogo diverso da quello in cui sono nate. Quel potere che permetteva ai «padri» della Costituente di pensare che la nuova democrazia italiana non potesse fare a meno degli studenti migliori e che fosse compito dello Stato e non più solo della società (riserva inesauribile di diseguaglianze e di ingiustizie) di riconoscerne e valorizzarne i talenti.
Questo ci permette di fare un’ulteriore considerazione circa il fatto che una democrazia non si risolve, pena il suo fallimento, sul piano orizzontale della comune mediocrità. Una democrazia sana e forte, soprattutto di fronte ai suoi nemici, è una democrazia che accoglie in sé il principio dell’aristocrazia, vale a dire il principio dei migliori. Come sapeva, ad esempio Antonio Gramsci, una società che aspiri all’ uguaglianza e alla giustizia nei rapporti sociali non per questo rinuncia a selezionare i migliori. Quello che cambia, osservava uno dei più originali pensatori del marxismo europeo, era la base sulla quale si operava questa selezione. Del resto era stato Lenin a proclamare il principio che anche una cuoca potesse governare l’Unione sovietica. Dove quell’ «anche» non voleva dire che persino una cuoca avrebbe potuto governare la Repubblica dei Soviet, ma che compito dello Stato socialista sarebbe stato quello di mettere una cuoca nelle condizioni di essere classe dirigente.
Ora che cosa vuol dire rinunciare a selezionare? Vuol dire forse essere più accoglienti; significa evitare di inchiodare un adolescente, vale a dire un individuo che ha dinanzi a sé tutta la vita e possibilità ancora impregiudicate, inchiodare, dicevo, un adolescente al proprio fallimento momentaneo? Niente di tutto questo. Evitare di selezionare significa autorizzare qualcun altro a farlo. La scuola che non boccia più nessuno demanda semplicemente a qualcun altro il compito di farlo. A chi? È questo il punto. La risposta è una sola: la scuola che non seleziona si accontenta che a farlo sia il mercato, quel vasto e crudele spazio della competizione dove a competere sono sempre i più attrezzati. Siccome noi viviamo in società che non riconoscono più nessun valore, almeno in linea teorica, al cosiddetto principio di ascrizione, le diseguaglianza sono legittime solo in quanto trascrivono differenze nei livelli di merito. Il modo ufficialmente riconosciuto per certificare queste differenze è rappresentato dalle credenziali educative, i titoli di studio. Ora siccome il mercato è essenzialmente uno spazio reputazionale, quello che conta in una competizione regolata dai titoli di studio non è il fatto che due candidati possano presentare una credenziale dello stesso livello. A fare la differenza è propriamente la «fama» dell’ente erogatore. Screditare la scuola pubblica in questi anni ha significato sottrarre allo Stato la titolarità degli standard di qualità, alterando così il gioco della competizione. Diciamo così che il messaggio al compratore inviato in questi anni è stato di questo tenore: la scuola pubblica assolve a funzioni di alfabetizzazione di base, il resto lo fanno le risorse delle famiglie. Le quali, soprattutto al Nord, si sono spostate verso l’istruzione privata oppure, auspice l’autonomia, hanno fatto «proprie» le scuole pubbliche dei propri figli. Questo comporta un solo effetto: la fine della selezione è stato uno sbarramento alle ambizioni di mobilità dei ceti popolari subalterni, confinati dentro un sistema di istruzione concepito sempre di più come un apparato burocratizzato per il trattamento di moltitudini sommariamente alfabetizzate.
In questa drastica riaffermazione dei valori privatistici c’è in gioco un elemento ulteriore. Se la cultura non è più il motivo per il quale si mandano i figli a scuola, detta in toni più formali, se il principio di legittimazione dell’istituzione scolastica passa dalle funzioni tradizionali connesse allo studio al primato assegnato al mercato e all’ orientamento professionalizzante dell’organizzazione didattica, la domanda che bisogna porsi è la seguente: quali diventano i compiti dell’insegnante?
Nella cosiddetta scuola tradizionale, la risposta era di questo tipo: l’insegnante promuove l’autonomia dell’allievo, fornendogli gli strumenti intellettuali perché il giovane in formazione possa liberamente scegliere il proprio futuro, vale a dire i modi di iscrizione della propria vicenda personale dentro il quadro della società. Oggi gli insegnanti non sarebbero in grado di dare la stessa risposta. Le richieste di conformismo sono sempre più urgenti. Dall’ importanza annessa alle tecnologie informatiche, alla spinta in direzione della diffusione dell’uso dell’inglese nell’ insegnamento, fino all’ imposizione dell’ alternanza scuola-lavoro, la nuova scuola abolisce brutalmente la sua duplice natura di istituzione al servizio dell’ autonomia personale e della socializzazione a vantaggio esclusivo del secondo termine della polarità. La nuova scuola è al servizio delle richieste di uniformità che provengono dal mondo del lavoro. Il suo compito è produrre individui disponibili a lasciarsi plasmare secondo queste richieste. L’individuo in questo quadro esiste esclusivamente nella sua dimensione di consumatore e di addetto alla nuova produzione, con un tratto di intolleranza ideologica nei confronti di qualsiasi voce dissidente che non ha precedenti nella storia culturale dell’Italia democratica. L’idea ad esempio che il giovane non voglia integrarsi in una società così concepita, che chieda alla scuola strumenti intellettuali per capire il mondo e non solo per adattarvisi non viene nemmeno presa in considerazione.
La nuova scuola è concepita sulla base di un funzionalismo che presenta tratti inediti di rozzezza e di brutalità ideologica.
Se questa è la scuola che celebra i settanta anni della Costituzione repubblicana, allora in questo quadro c’è una presenza abusiva, o della Costituzione o delle nuove politiche scolastiche.
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