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Numero 2 - Marzo 2018
Numero 2 Marzo 2018

La lezione frontale

Confesso il mio peccato: adotto, in classe, la lezione frontale. E proclamo a gran voce che la lezione frontale è la vetta di ogni didattica. Non il simbolo di tutto il vecchiume da cui i maître à penser della psicopedagogia, e molti prèsidi e colleghi illuminati, ci vorrebbero affrancare.


01 Marzo 2018 | di Alberto Dainese

La lezione frontale Ci sono due momenti, ogni anno, in cui mi ritrovo a dover mettere nero su bianco la dicitura “lezione frontale”: a ottobre, quando stendo il “piano di lavoro”, e a giugno, per la “relazione finale” che gli fa da contrappunto. Non nascondo che ogni volta mi percorre un brivido. È come confessare un peccato, con la consapevolezza però che l'ammissione è ineluttabile, sia per onestà intellettuale che per l'ossequio da ligio dipendente all’obbligo di dichiarare il vero. Anni passati tra formatori, psicologi, pedagogisti, metodologi, dirigenti e colleghi militanti mi hanno, mio malgrado, a tal punto condizionato che ancora provo vergogna a scrivere quelle due paroline. E non escludo che moltissimi colleghi abbiano cassato tout court l’aborrita formuletta, vuoi perché ormai persuasi che ci siano modi migliori per condurre la lezione, vuoi per mero ossequio formale, da nicodemiti, ai dettami imposti dall’alto, a mo’ d’indottrinamento ideologico o di Diktat burocratico. Mi dico, però, che è ora di dire basta. Mi propongo, d’ora in avanti, di reprimere quel brivido, tacitare quel senso di colpa. Non mi voglio vergognare più. Voglio dichiarare che adotto la lezione frontale con consapevolezza e orgoglio quale maestra e regina tra le forme di lezione possibili, senza più remore o infingimenti, il che non preclude che essa possa (o debba) attorniarsi di uno stuolo di tecniche ancillari e ausili di ogni tipo e natura.
 
La lezione frontale, di uno che sa e può di più (magis-ter) a beneficio di chi sa e può di meno, ha superato la prova del tempo (a differenza delle mode pedagogiche, che durano lo spazio di un mattino): ha istruito schiere di studenti e trasmette quanto di buono vale la pena consegnare alle nuove generazioni da tempo immemorabile. Considerata dal mainstream la matrice di ogni male, vituperata e derisa, praticata ormai solo in gran segreto nel chiuso delle aule quale atto carbonaro, negata persino da chi di fatto l'adotta (“ma non è proprio frontale frontale: è interattiva, è partecipata, è empiriocentrica, è student-centred, è di pochi minuti, si avvale di diapositive”... e via discolpandosi), è assurta a gran totem e tabù, è quasi il simbolo di tutto il vecchiume da cui i maître à penser della psicopedagogia, e molti prèsidi e colleghi illuminati, ci vorrebbero affrancare. Ecco, io trovo invece che sia liberatorio proclamare finalmente a gran voce che la lezione frontale è la vetta assoluta di ogni didattica. Non esiste, non può esistere, niente di altrettanto economico, ovvero nulla che ottenga più in fretta e in modo più efficace gli stessi risultati con un dispendio di tempo, mezzi, denari altrettanto esiguo. Ebbene sì: in questo tempo di economicismo e talora sacrosanti tagli allo spreco, la lezione frontale dev’essere riconosciuta campionessa del rapporto costi/benefici. Il mio amore e la mia gratitudine di ex studente per i miei maestri, che per mezzo di questo solo strumento, senza quasi mai ricorrere neppure a gesso e lavagna, mi hanno passato tutto quanto potevano, con competenza e passione, mi supportano e animano in questo mio slancio apologetico.
 
E non si tratta solo di passaggio di conoscenze (altro tabù). Pensiamoci: una lezione ben fatta, in cui in un clima di serena laboriosità gli studenti – in silenzio – ascoltano e annotano, non è solo trasmissione di contenuti. S’impara, per esempio, ad ascoltare in modo attivo, transcodificando in appunti e schemi quanto viene detto, coltivando al contempo le proprie doti di sintesi. S’impara a star seduti calmi e concentrati per tempi lunghi, ottimo antidoto alle soglie di attenzione infinitesimali degli studenti di oggi, fenomeno che è da imputare anche a noi stessi e al nostro inseguire metodologie e strumenti didattici che assecondano la loro dispersività e promuovono la parcellizzazione delle lezioni in istantanee, atomi, schegge. Ancora, s’impara a rispettare quanto un altro racconta o spiega o (di)mostra, addomesticando la spontanea tendenza del singolo, specie da bambino e adolescente, al soggettivismo narcisistico, ai facili “io penso” e “ma io...”. Infine, si può godere di un modello d’uso della lingua, di articolazione dei concetti, di argomentazione. Dico sùbito a chi sente puzza di regime che non si tratta di autoritarismo, bensì di severa propedeutica al libero pensiero. Lo studente potrà – anzi dovrà – rielaborare, anche in modo critico e creativo, quanto gli viene così bene illustrato, ma solo dopo aver ascoltato e osservato con calma, aver studiato e provato da sé, aver riferito a voce e per iscritto, aver applicato e ricercato in proprio. A molti verrà in mente – me lo aspetto – anche la parola noia. A parte il fatto che la noia è uno dei motori del sapere più sottovalutati (ma questa è un’altra storia), credo che sia capitato a tutti di ascoltare con rapimento non dico un bravo docente ma magari un bravo oratore o conferenziere e di provare un intimo e profondo piacere intellettuale nel seguire l’inanellarsi dei concetti, il fluire del fraseggio, l’icastica efficacia dello stile, il fiorire degli esempi, la cogenza della dimostrazione, l'incalzare dei quesiti.
 
E così è coi bravi insegnanti, che padroneggiano e amano la materia: non ci si annoia, o se anche a volte càpita – com’è normale – di annoiarsi, saranno il rispetto, il senso del dovere e l’habitus a far presto ritrovare il filo smarrito. O così dovrebbe essere, in una “buona scuola”. Certo, se solo un’intera società e un intero sistema non lavorassero con pertinace determinazione a disperdere le energie degli studenti, a vezzeggiarli anziché coltivarne il potenziale, a istupidirli e ubriacarli nel mesmerico e rutilante caleidoscopio virtuale della rete e in una dimensione di ludica e perpetua immaturità, a vilipendere la categoria dei docenti, a svuotare di senso la scuola immaginandola quale grande parcheggio o paese dei balocchi, insomma: se solo ci fossero le precondizioni sociali, culturali, professionali per esercitare quella cadenzata, tranquilla, antichissima, ovvia faccenda che dovrebbe essere la trasmissione efficace del sapere ai nostri bambini e ragazzi. Bravi insegnanti, liberi da vessazioni burocratiche e ricatti parentali o dirigenziali, buoni manuali, un supporto per scrivere purchessia: è questo, in fin dei conti, l'imprescindibile che serve ai nostri studenti per godere di una buona scuola. Il resto è contorno e complemento, quando non sia coreografia, orpello o superfetazione. Non dimentichiamocene.
 
 


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Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
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Hanno collaborato a questo numero:
Fabio Barina, Roberto Casati, Vito Carlo Castellana, Rosario Cutrupia, Alberto Dainese, Tomaso Montanari, Marco Morini, Adolfo Scotto di Luzio, Fabrizio Tonello, Ester Trevisan