Difficile sottarsi all’impressione che in questo andare e venire tra ipotesi differenti di governo dell’ istruzione superiore nel nostro Paese la politica italiana non sappia bene cosa farsi della Università
17 Febbraio 2020 | di Adolfo Scotto di Luzio
Le dimissioni del ministro Fioramonti alla vigilia di Natale hanno riportato in auge un ufficio che negli ultimi trent’anni ha avuto una vita incerta e travagliata, il Ministero dell’ Università e della Ricerca, nato come Eva dalle costole del suo Adamo, il ben più antico e glorioso ministero della Pubblica istruzione. Istituito alla fine degli anni Ottanta tra i fuochi di artificio della Pantera; restituito dal governo Prodi alla responsabilità di un unico titolare in vista del suo accorpamento realizzato a dieci anni esatti dalla prima istituzione, tornò alla ribalta nel 2006, per opera dello stesso Presidente del Consiglio che ne aveva sancito la fine allo scadere degli anni Novanta, il capo dell’Ulivo Romano Prodi. Durò lo spazio di un mattino. La finanziaria del 2008, approvata con la legge n. 244 del 2007 ne decretò la fine restituendo l’Università e la Ricerca alla loro casa madre, nell’abbraccio avvolgente del Miur. Sono passati altri dieci anni e, praticamente ieri, il 28 dicembre del 2019, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte prende la palla al balzo delle dimissioni di Fioramonti e, come si dice in questi casi, «spacchetta» il Miur e chiama alla guida dell’Università il rettore della Federico II, Gaetano Manfredi. È finita qui? Nessuno lo può sapere. È difficile però sottrarsi all’impressione che in questo andare e venire tra ipotesi differenti di governo dell’ istruzione superiore nel nostro Paese la politica italiana non sappia bene cosa farsi della Università. Certo è che l’Università non gode di buona salute. Drammaticamente sottofinanziata, è oggi attraversata da linee di frattura che riproducono e amplificano quelle che segnano la penisola, separando e allontanando sempre di più Nord e Sud, ma anche vecchi e giovani.
Conviene allora riandare ai tempi del grande progetto che portò alla nascita del Murst, così si chiamava allora il nuovo dicastero, Università, Ricerca scientifica e tecnologica. Innanzitutto, bisogna prestare attenzione alle date, quella soglia significativa tra anni Ottanta e Novanta, alla vigilia di Maastricht e dell’Unione europea e nel bel mezzo di un riassetto dei rapporti di forza internazionali. Perché a guardare quelle date e ciò che poi ne è venuto, la prima cosa che non si può fare a meno di notare è la nostra estrema difficoltà a fronteggiare il cambio di orizzonte globale. L’Italia verifica sul terreno particolare dell’ Università, che poi così marginale proprio non è, una più generale incapacità di venire a capo delle profonde trasformazioni tanto nella sfera politica che in quella dell’economia e della produzione. Non abbiamo retto agli anni Novanta e da allora sembra che non ne azzecchiamo una.
Questa circostanza va notata perché il Murst nacque con le migliori intenzioni, almeno nel progetto di chi lo aveva fortemente voluto, il socialista Antonio Ruberti. Ruberti era un ingegnere napoletano, all’epoca ministro senza portafoglio per il Coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica del governo presieduto da Giovanni Goria. Siamo all’epoca della «staffetta», Craxi ha appena lasciato l’incarico, De Mita si appresta a succedergli, la tensione tra socialisti e democristiani è molto forte. Le elezioni del 1987 sono state un piccolo successo per il Psi e sembra che un’Italia laica, dopo la tempesta degli anni Settanta, stia stabilmente prendendo forma tra le due «chiese» della Dc e del Pci. Il progetto del Murst sta all’interno di questo contesto. Ruberti è un uomo molto esperto. Per più di dieci anni ha guidato da rettore il più grande ateneo d’Italia, la Sapienza di Roma. E non sono stati anni qualunque. Diventato rettore nel 1976, è stato lui che ha dovuto tener testa all’ Autonomia operaia nel 1977. Ruberti è un tecnocrate ma ha un culto dell’autonomia della ricerca e crede nell’ Università. Gode di un forte appoggio anche a sinistra, è in ottimi rapporti con il Pci, e la sua nomina a ministro viene salutata sulle pagine di Repubblica da un intervento di Alberto Asor Rosa che ha un titolo molto eloquente, L’uomo giusto al posto giusto.
Sulla soglia degli anni Novanta, Ruberti pensava che l’Italia dovesse attrezzarsi con una moderna ed efficiente struttura di governo dell’Università e della Ricerca per fronteggiare le sfide che si stavano preparando, a cominciare da quella unificazione dello spazio economico europeo che di lì a tre anni avrebbe preso la forma del Trattato di Maastricht. L’Italia non doveva arrivarvi impreparata e l’Università doveva essere lo strumento moderno nelle mani di un Paese di fronte alla sfida decisiva dell’innovazione.
La nascita del Murst dunque ci colloca direttamente nel punto in cui all’ ordine del giorno dell’agenda politica sta per l’ennesima volta la questione della modernizzazione italiana. Dico per l’ennesima volta perché gli anni Ottanta sono stati un continuo riproporsi della questione a tutti i livelli, istituzionale, economico e produttivo, scientifico e tecnologico. Puntualmente l’Italia si è mostrata incapace di farvi fronte, paralizzata da un sistema politico che sembra ancora ben saldo, ma che in realtà da almeno dieci anni sta cercando di rimandare la propria catastrofe. Il 1992 è dietro l’angolo e gli scricchioli non li sente solo chi non li vuole sentire. Per l’Università quella è una sorta di ultima chiamata. L’istituzione ha alle spalle anni molto complicati. La liberalizzazione degli accessi nel 1969, una popolazione studentesca di tipo nuovo, strutture che in compenso restano sostanzialmente immodificate, tutto questo ha generato tensioni enormi sulle quali si è innestato un livello molto elevato di violenza politica. Insomma è arrivato il momento di mettere mano all’intero edificio.
Ruberti ci riuscì? A mio avviso no. Nel giro di poco tempo, il ministro si trovò a dover fronteggiare nel paese un’opposizione molto dura, che tra l’inverno del 1989 e i primi mesi del 1990 vide centinaia di facoltà occupate dal Sud al Nord. Soprattutto, si complicò fino a farsi confusissimo il quadro politico. Venne progressivamente meno il sostegno dei comunisti. I democristiani dal canto loro avevano vissuto l’istituzione del nuovo dicastero come una scelta imposta loro dagli accordi di governo con i socialisti. Galloni, allora titolare della Pubblica istruzione, non mancò di mostrare la sua avversione. Gli stessi socialisti non vedevano di buon occhio il progetto che avrebbe portato a concentrare nelle mani di un solo uomo il governo dell’ Università e soprattutto degli Enti pubblici di Ricerca, feudo politico e sindacale da tempo immemorabile. Ruberti voleva unificare lo statuto giuridico dei ricercatori degli Enti e quello dei professori universitari, i quali come è noto ricadevano e ricadono all’interno di due regimi molto diversi. Questo avrebbe significato mettere radicalmente in discussione la trama di rapporti politico-sindacali che sta alla base del sistema italiano della Ricerca. Fu Silvano Labriola, deputato socialista e presidente della Commissione affari costituzionali a mettersi di traverso perorando la causa della separazione e indebolendo di fatto l’impianto strategico della riforma.
Ma c’è un’altra questione che va posta, l’autonomia. Ruberti era a favore dell’ autonomia? Lo era come lo sono sempre stati tutti i professori universitari, ma l’autonomia per come è stata realizzata era una cosa molto differente. Come ha ricordato qualche anno fa su Roars Alessandro Figà Talamanca, ben presto l’ autonomia divenne il rifugio di tutti quelli che avevano qualche interesse minacciato dalla nascita del Murst. Ruberti subì l’autonomia, convinto di potervi porre rimedio con una legge ad hoc. Non fu così e il Murst nacque in un quadro normativo confusissimo. Se bisogna cercare le radici della crisi attuale è dunque agli anni Novanta che bisogna risalire. E non solo per l’ Università.
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Adolfo Scotto di Luzio insegna Storia della pedagogia, Storia delle istituzioni scolastiche ed educative e Letteratura per l'infanzia nell'Università di Bergamo. Si è occupato a lungo di storia del fascismo e, in particolare, della costruzione del suo apparato culturale e anche di storia delle istituzioni culturali e della scuola (con un'attenzione mai smessa per l'editoria e la stampa).
Ha pubblicato diversi volumi, tra cui ricordiamo, per il Mulino, «Il liceo classico» (1999), «La scuola degli italiani» (2007) e «Napoli dei molti tradimenti» (2008), «Senza Educazione. I rischi della scuola 2.0» (2016); per Bruno Mondadori «La scuola che vorrei» (2014).
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