In generale, è ormai provato che la decisione di optare per misure lievi, contando sul senso civico dei cittadini sia stata sbagliata: la Svezia ha dati sul numero di contagi e di decessi molto peggiori di paesi limitrofi.
28 Agosto 2020 | di Marco Morini
Mentre ci si avvia alla riapertura completa delle scuole italiane e il dibattito politico e mediatico sembra impegnato ad accapigliarsi su dettagli contingenti come i banchi a rotelle o su problematiche di ben più lungo periodo come i criteri di reclutamento del personale, è utile riflettere sull’enorme decisione presa a marzo scorso: la chiusura di tutte le scuole italiane, di ogni ordine e grado.
La scelta italiana, come molte altre relative alla gestione dell’emergenza Coronavirus, è stata presto imitata da molti altri Paesi. Secondo un rapporto dell’Unesco, a fine marzo scorso, il 90% degli studenti di tutto il mondo era obbligato a stare a casa. Si trattava di oltre un miliardo di giovani, sparsi nei 184 Paesi in cui le lezioni in presenza erano state interrotte. Già ad aprile alcune nazioni hanno cominciato a riaprire le scuole e via via altri si sono accodati, per un totale di 77 Paesi che a fronte di una prima chiusura totale hanno poi ripreso le lezioni. Paesi come Francia, Russia e Portogallo sono tra quelli che hanno riportato la didattica in presenza, non transigendo da quattro criteri fondamentali: disinfettanti, mascherine, distanziamento e riduzione del numero di alunni per classe. Prima assoluta fra tutti in Europa è stata la Danimarca: scuole riaperte il 15 Aprile. Qui, le regole base sono state la divisione delle classi in gruppi e soprattutto la significativa estensione dell’orario di lezione, “spalmato” su ben 12 ore (dalle 9 del mattino alle 9 di sera). Questo ha permesso la turnazione di studenti e insegnanti con minor afflusso a scuola in contemporanea. Strategie simili sono state adottate in Belgio e in Austria, con dettagli quali intervalli separati ed educazione fisica imperniata su attività individuale. Nei Paesi Bassi del premier Rutte (che fu ministro dell’istruzione dal 2004 al 2006), la riapertura si è avuta l’11 maggio: classi dimezzate per decreto e obbligo di areazione costante. In generale, nell’emisfero settentrionale, l’arrivo della primavera ha facilitato anche le cose: finestre aperte per un’areazione costante dei locali e lezioni all’aperto ove possibile.
Negli Stati Uniti le decisioni sono invece demandate ai singoli stati e qui ognuno è andato a modo suo, in realtà seguendo la coloritura politica della maggioranza di governo di ciascun stato: gli stati governati dai democratici sono stati i più rapidi nell’imporre la chiusura delle scuole, mentre quelli repubblicani sono quelli che hanno resistito più a lungo nel decidere di mandare a casa studenti e insegnanti. In questo hanno ricalcato in pieno il dibattito nazionale e la sfida presidenziale: Trump che per mesi ha “negato” il virus e rifiutato di mostrarsi in pubblico indossando la mascherina; lo sfidante Biden che ha sin da subito compreso la gravità della situazione e richiesto misure “europee”.
La domanda più importante e che molti si fanno è se nei Paesi in cui le scuole hanno riaperto i contagi siano aumentati. La risposta, perlomeno nei paesi europei, sembrerebbe negativa. La riapertura controllata, con distanziamento e dispositivi di protezione, non sembra aver causato un incremento dei contagi. Per avere un quadro più chiaro occorrerebbe però concentrare l’attenzione su quei Paesi che non sono mai andati in lockdown e che hanno invece tenuto le scuole sempre aperte. A fronte di nazioni guidate da governi dichiaratamente negazionisti come Bielorussia e Nicaragua, sui quali è impossibile avere dati oggettivi, vi sono altri due Paesi (stavolta democratici) che possono offrire un esempio importante. Taiwan viene spesso portata a esempio come reazione ideale al Covid-19: lì le scuole non hanno mai chiuso ma hanno da subito imposto le ormai note regole cruciali contro la diffusione del virus. Complici una pregressa abitudine all’uso delle mascherine e una spiccata competenza tecnologica e diffusione di dispositivi elettronici, la Repubblica di Cina ha disposto sin dall’inizio un severo tracciamento elettronico di tutti i suoi abitanti, imponendo il download obbligatorio dell’app di tracciamento. Questo ha permesso di limitare i contagi, di circoscrivere i focolai e di mantenere le scuole sempre aperte in sostanziale sicurezza.
L’altro caso di studio, ma stavolta con implicazioni evidentemente negative è l’ormai famigerata Svezia: nel paese simbolo del welfare scandinavo e dell’alta qualità di vita, solo le università si sono (parzialmente) fermate. Le scuole sono invece sempre rimaste aperte. Anche qui non è facile al momento mettere in relazione l’aver mantenuto aperte le scuole e la diffusione dei contagi. In generale, è ormai provato che la decisione di optare per misure lievi, contando sul senso civico dei cittadini sia stata sbagliata: la Svezia ha dati sul numero di contagi e di decessi molto peggiori di paesi limitrofi comparabili come Danimarca e Finlandia che hanno invece scelto il lockdown “all’italiana”. I media inoltre riportano che una scuola superiore di Uppsala ha registrato il decesso di due suoi dipendenti, probabilmente contagiati da un insegnante trovato positivo. Mentre è stata comunicata la morte di un professore e il contagio di 20 adulti tra bidelli e insegnanti in un istituto superiore di Skellefteå. Un recente studio scientifico, realizzato in Israele, ha mostrato la straordinaria importanza del rispetto delle precauzioni imposte. La ricerca ha analizzato quello che è successo in una scuola superiore con 1161 studenti (di età 12-18 anni) e 50 professori. Dopo la chiusura decretata il 18 marzo, la scuola ha riaperto esattamente due mesi dopo, mettendo in atto tutte le disposizioni sanitarie ormai note. Dieci giorni dopo la riapertura però, un’eccezionale ondata di caldo africano ha convinto il Ministero dell’Istruzione a dispensare gli studenti dall’obbligo di indossare sempre la mascherina quando fossero presenti all’interno delle mura scolastiche. La dispensa è restata in vigore appena due giorni, ma già nei primi giorni di Giugno alcuni studenti hanno iniziato a sviluppare sintomi tipici del Coronavirus. Uno screening effettuato poco dopo sulla totalità di studenti e professori ha mostrato come 153 studenti e 25 docenti fossero stati contagiati (il 15% circa degli studenti e il 50% degli insegnanti).
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