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Numero 4 - Settembre 2020
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Montanelli, le statue e un ventennio da studiare meglio

L’Italia non ha mai fatto veramente i conti con il fascismo e le sue imprese in Africa. A quanto pare ci si ostina a coltivarne una versione da rotocalchi anni Cinquanta, quella in cui “il colonialismo italiano fu tra i più umani”


28 Agosto 2020 | di Fabrizio Tonello

Montanelli, le statue e un ventennio da studiare meglio Di Montanelli si sa tutto, non solo grazie al sovrabbondante materiale scritto lasciato in 70 anni di carriera giornalistica ma soprattutto per merito dell’accurata biografia in due volumi di Sandro Gerbi e Raffaele Liucci, di cui il primo è opportunamente intitolato Lo stregone. Questo soprannome, secondo Montanelli coniato da Dino Grandi nel 1963, palesemente compiaceva il narcisista di Fucecchio ma sostanzialmente corrispondeva a verità, come si è potuto verificare nel giugno scorso quando l’intero establishment del giornalismo italiano lo ha difeso senza esitazioni dopo che un gruppo di studenti ha imbrattato la sua statua a Milano. L’azione era un’imitazione della demolizione di statue di noti schiavisti avvenute negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.
 
I giornalisti italiani si sono affrettati non solo a condannare il “vandalismo” ma anche a dichiarare che si trattava di “odio ideologico”, anzi di una “forma di razzismo”, trovando insospettabili alleati anche in rispettati storici come Angelo del Boca e Alessandro Barbero. Di più: il fatto che il giovane Montanelli in Eritrea avesse comprato una dodicenne (o quattordicenne, secondo altre fonti) di nome Destà per ottenerne le prestazioni sessuali (poi rivenduta all’harem di un generale italiano) veniva minimizzato sulla base dei costumi locali e del tempo passato. Giustificazioni che sembravano prese di peso dall’Ebreo di Malta di Christopher Marlowe: “Fornicazione? Ma era in un paese lontano e poi la ragazza è morta”.
 
Una simile unanimità si può spiegare solo in due modi: o Montanelli era e rimane davvero uno stregone anche dall’Al di là, un mago capace di incantesimi che durano ancora oggi, oppure l’Italia non ha mai fatto veramente i conti con il fascismo e le sue imprese in Africa. A quanto pare ci si ostina a coltivarne una versione da rotocalchi anni Cinquanta, quella in cui “il colonialismo italiano fu tra i più umani, la sconfitta militare etiope fu più demerito delle truppe del Negus che prodotto dello sforzo bellico fascista, i rapporti che s'instaurarono dopo l'occupazione con le popolazioni locali furono sostanzialmente cordiali”, come scrisse qualche anno fa Gabriele Polo sul manifesto.
 
Temo purtroppo che quest’ultima sia la spiegazione corretta, basti il fatto che sul Corriere della sera del 1995 (direttore Paolo Mieli) compariva in prima pagina con grande evidenza un riquadro intitolato: “Italiani contro il Negus. Colonialisti ma non feroci”. La recensione di Montanelli a un libro sul Negus era sintetizzata così: “Una storia densa di eventi drammatici che lascia aperti ancora molti interrogativi. Fra questi, quelli relativi alla guerra italiana: il nostro fu un colonialismo feroce o dal volto umano?” A parte l’idea vergognosa che sia potuto esistere un colonialismo “dal volto umano”, la storia dell’invasione dell’Etiopia non lasciava affatto “molti interrogativi”, visto che sulla particolare brutalità dei generali Graziani e Badoglio, sull’uso dei gas asfissianti vietati dalla convenzione di Ginevra e sui massacri non solo di civili ma perfino di monaci copti gli storici avevano documentato tutto già da molti anni. Si veda, per esempio, Le guerre italiane 1935-1943 di Giorgio Rochat, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana di Nicola Labanca o la tenace e meritoria ricerca di Angelo Del Boca in una dozzina di libri tra cui I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia.
 
Ma il testo del Corriere andava oltre: “il regio esercito fece uso di gas come risulterebbe dai documenti di parte etiopica citati da Del Boca? Oppure l’accusa è infondata come sostiene chi, come Indro Montanelli, a quella guerra ha partecipato [da] testimone diretto?” Dunque, nel 1995 non solo il Corriere negava ancora l’uso, ampiamente documentato, dei gas in Etiopia, ma cercava di screditare Del Boca insinuando che avesse usato “fonti etiopiche” quando invece le prove stavano tutte negli archivi italiani usati dallo storico.
 
Di più: quando il Ministro della difesa Corcione, alcuni mesi dopo, confermava ufficialmente, per la prima volta, l’uso dei gas, il Corriere nascondeva la notizia a p. 13, in 14 righe, meno di quante sarebbero state usate per uno scippo in periferia. Di fronte alla protesta di Del Boca, Montanelli replicava –eccezionalmente- con un’ammissione: “Gas in Etiopia: i documenti mi danno torto”. Ma anche in questa occasione non rinunciava a evadere, minimizzare, insinuare il dubbio, affermando nella sua replica che “nelle guerre italiane il ‘fatto’ non sempre, anzi quasi mai, corrisponde al ‘documento’” e concludendo “La mia papera sui gas rimane e ne chiedo scusa a lei e ai lettori”. Ecco: 60 anni di menzogne a tenace difesa del colonialismo fascista erano solo questo: una papera, come quando Di Maio sbaglia i congiuntivi. Forse qualche iniziativa in più a scuola sul ventennio, ora tornato di moda anche grazie a bugiardi matricolati come Montanelli e Pansa sarebbe opportuna.
 
 
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Fabrizio Tonello è docente di Scienza politica presso l’università di Padova, dove insegna, tra l’altro, un corso sulla politica estera americana dalle origini ad oggi. Ha insegnato alla University of Pittsburgh e ha fatto ricerca alla Columbia University, oltre che in Italia (alla SISSA di Trieste, all’università di Bologna).
Ha scritto L’età dell’ignoranza (Bruno Mondadori, 2012), La Costituzione degli Stati Uniti (Bruno Mondadori, 2010), Il nazionalismo americano (Liviana, 2007), La politica come azione simbolica (Franco Angeli, 2003).
Da molti anni collabora alle pagine culturali del Manifesto.
 
 
 


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Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
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Hanno collaborato a questo numero:
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