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Numero 10 - Dicembre 2012
Numero 10 Dicembre 2012

Il lavoro che rende liberi e il dovere dell’ozio

Le dichiarazioni del ministro Profumo, sul patto da proporre ai docenti per una nuova scuola, hanno mostrato ben presto il fumo senza arrosto della loro natura propagandistica. Profumo svanito, dunque, e la solita puzza di bruciato emersa dal tentativo di sacrificare i docenti, di offrirli come capro espiatorio, sull'altare politico e mediatico, al linciaggio dell'opinione pubblica.


02 Dicembre 2012 | di Pietro Milone

Il lavoro che rende liberi e il dovere dell’ozio
La norma sulle 24 ore di insegnamento è stata per ora accantonata. Il ballon d'essai del suo annuncio ha testato la natura e l'intensità della reazione dei docenti per consentire al governo che verrà di cucinare il piatto di lenticchie da offrire in cambio. Le dichiarazioni del ministro Profumo, sul patto da proporre ai docenti per una nuova scuola, hanno mostrato ben presto il fumo senza arrosto della loro natura propagandistica. Profumo svanito, dunque, e la solita puzza di bruciato emersa dal tentativo di sacrificare i docenti, di offrirli come capro espiatorio, sull'altare politico e mediatico, al linciaggio dell'opinione pubblica. Il tentativo maldestro, destinato al fallimento nel contesto di tagli alla scuola pubblica, potrebbe riuscire meglio con una politica riformistica e ancor più gesuitica. Con Bersani, domani, come con Berlinguer ieri.

Occorre perciò ribadire la semplice verità che i docenti lavorano male, inutilmente e troppo. I docenti sono e devono essere professionisti (critici) della conoscenza, intellettuali, non impiegati, esecutori, generici ''operatori'', tanto meno socio-assistenziali (di strada o di centro sociale o civico). E il loro dovere possono svolgerlo solo nell'ozio.
La battaglia di retroguardia di ''far emergere il lavoro sommerso'' è subalterna, nella sua prospettiva quantitativa, a concezioni dell'insegnamento alle quali tira la volata: la concezione (burocratico-impiegatizia o operaia) di docente-massa, in primo luogo. O, in alternativa (ma complementare), la concezione tecnocratica nella sua duplice possibile opzione: interna o esterna alla scuola. La seconda è stata quella prescelta dal MIUR, non avendo saputo o potuto praticare la prima, e ha prodotto i pessimi e potenzialmente catastrofici risultati sotto gli occhi di tutti (pressapochismi INVALSI, quizzoni berlingueriani riveduti e corretti, ANVUR di Nonna Papera ecc.). Non possiamo perciò nasconderci che una parte dei docenti e delle loro rappresentanze condivide almeno una parte del peso della responsabilità di questa, peggiore, opzione rispetto a quella, cui si è opposta, della carriera e del merito (una strada incerta ma da preferire, magari anche solo come male minore, specialmente se depotenziata di implicazioni gerarchiche).

Il lavoro docente non si misura nel numero di ore ma si valuta qualitativamente. Appare perciò preoccupante e pericolosa (e talora patetica e risibile), più del pregiudizio al quale vorrebbe controbattere, la preoccupazione di voler certificare, più che la propria professionalità, le 24 e passa ore di lavoro ''reale''. Non ce ne meravigliamo, peraltro, viste le forme di reclutamento praticate per decenni e l'assenza di un reale aggiornamento, praticabile con la diminuzione dell'orario di lavoro: il ciclico ritorno all'università, allo studio e alla ricerca, in anni o periodi sabbatici. E quotidianamente, nell'otium della lettura, dello studio, della ricerca in biblioteca o sul web, della visita a una mostra, della presenza a una conferenza. In un ozio creativo, per dirla con il sociologo del lavoro Domenico De Masi.

Non discetteremo dell' otium nè del lavoro nella società postindustriale e della crisi, anche se, con De Masi, si vorrebbero richiamare Paul Lafargue e Bertrand Russell, che scriveva il suo Elogio dell'ozio in quegli stessi anni Trenta in cui Keynes scriveva Prospettive per i nostri nipoti. Testi che ci limitamo a compendiare nella richiesta di ''lavorare meno, lavorare tutti''.
E per meglio articolare e svolgere la parola d'ordine nella giusta prospettiva: nella scuola si lavora troppo, male e inutilmente perchè in maniera non creativa e non più finalizzata alla trasmissione di cultura e alla formazione; perchè la professione docente è stata snaturata, pervertita, sminuita e avvilita da una serie di fattori eterogenei ma concomitanti: la burocrazia; le politiche scolastiche; la crescente discrepanza educativa nel rapporto scuola-società e scuola-famiglia; la dissonanza cognitiva tra docenti e discenti sempre più palese in quella società telematica che Raffaele Simone ha da anni individuato come Terza fase di una conoscenza post alfabetica, di un nuovo analfabetismo.
Il lavoro inutile è il sintomo più inquietante di un sistema scolastico anche per questo sempre più simile a un sistema concentrazionario. Tesi, questa, sostenibile (anche se agli ignari e ai superficiali parrà dettata solo da estremismo polemico) sulla scorta di ragionate analisi, solo in parte compiute, e di alcune ''profetiche'' anticipazioni letterarie: da Fahrenheit 451 di Bradbury a Il sopravvissuto di Scurati, passando attraverso l'opera di Pasolini e Sciascia.
Gli storici hanno evidenziato che la politica di riorganizzazione delle modalità di lavoro, svincolate dalle qualità specificamente individuali del lavoro intellettuale, ha caratterizzato la politica culturale del fascismo. La programmatica mortificazione delle energie individuali in campo intellettuale (e morale) costituisce ormai il centro della pratica di governo della scuola (e dell'università) italiana. A conferma di ciò che Sciascia intendeva per «eterno fascismo italico», includendo nella definizione pratiche di potere di stampo totalitario, quand'anche trasformisticamente mascherate nella gesuitica pratica cui sono stati addestrati per decenni i quadri del PCI. Come sperimentato dai tempi del ministro Berlinguer che, sommando il peggio del nuovo al peggio del vecchio, contribuì non poco a produrre (e a non impedire) lo sfascio ora sotto gli occhi di tutti.

Senza i docenti non c'è scuola. La scuola incentrata sull'unica variabile dello studente è il frutto marcio dell'astrazione di ormai inconsistenti teorie prenovecentesche. La relazione è duale e l'insegnamento non è mero addestramento da consegnare a un succedaneo tecnologico del docente, a macchine per insegnare. Per formare teste ben fatte di studenti c'è bisogno, prima, di teste ben fatte di docenti. Da loro occorre ripartire, in direzione ostinatamente contraria a quella imboccata da decenni di mortificazione del docente intellettuale, frutto, consapevole o meno, di tendenze illiberali quando non totalitarie. Gerarchi di ogni colore hanno preteso e vorrebbero pretendere (a dispetto dell'art. 33 della Costituzione) di dire ai docenti cosa e come spiegare. Quale storia, magari (come esemplarmente il gerarca fascista di un raccontino di Brancati di cui scrivevo, qui su PD, anni fa). Nazisti e maoisti hanno misurato il loro potere, come sempre anche gli uomini ai vertici di comando economico- politico, rieducando e umiliando gli intellettuali. Tale violenza non è da meno di quella fisica che promana dalla società, dall' «universo orrendo» antevisto da Pasolini, con le ben note conseguenze del burn out docente (nel più negato dei lavori usuranti). E si somma, psicologicamente, alla violenza vessatoria dell' «irrazionalità del lavoro inutile e improduttivo, fatto per essere subito disfatto», per citare La vendetta è il racconto di Pier Vincenzo Mengaldo, anche se si potrebbe ricorrere ad analogie legate a casi meno estremi.

Estremo o meno che sia, questo qualcosa al quale siamo in faccia, questa realtà negata, che si lega altresì alla negazione di un futuro al destino delle generazioni future, ci fa avvertire il peso della responsabilità della denuncia di una catastrofe già in atto, non meno letale di quella ecologica della quale però, ormai, c'è, viceversa, una diffusa coscienza. Quando dall'ulteriore coscienza della necessità, altresì, di un'ecologia culturale, antropologica, scaturirà finalmente una nuova politica e un nuovo programma di governo, si dovrà resettare la scuola dell'autonomia (falsa), del fondo d'istituto destinato ai progetti (inutili). E ripartire dalla cultura e dal docente come intellettuale.

Dovremo ritornarci sopra. Per ora concludiamo citando, dall'Elogio dell'ozio di Bertrand Russell, «la storiella di quel turista che a Napoli vide dodici mendicanti sdraiati al sole [...] e disse che avrebbe dato una lira al più pigro di loro. Undici balzarono in piedi vantando la loro pigrizia a gran voce, e naturalmente il turista diede la lira al dodicesimo, giacchè il turista era un uomo che sapeva il fatto suo». L'aneddoto, per analogia, ha la funzione di una perfetta parabola sulla scuola dell'autonomia e dei progettifici dove ci si accapiglia per una lira e colui che si attiene al dovere dell'ozio (per fortuna non ancora quella minoranza estrema che rischia di diventare) è il docente che, invece di competere, fa il suo lavoro in classe, pensando solo a quello. Ci vorrebbe un ministro (e poi dei dirigenti scolastici, di conseguenza) che sappia «il fatto suo» e torni a ricompensare solo quello.


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Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
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Hanno collaborato a questo numero:
Pietro Milone, Sergio Torcinovich