Le impressioni superficiali ed errate riguardano la cittadinanza nel suo complesso ma è particolarmente grave che un gruppo più scolarizzato e, teoricamente, più informato degli altri (in fondo l’università è una condizione privilegiata rispetto a quella della casalinga di Voghera) sia così distante dalla realtà e quindi incapace di scelte razionali in politica
23 Aprile 2017 | di Fabrizio Tonello
Quest’anno ho due insegnamenti a Comunicazione, uno nel corso di laurea triennale e l’altro nel corso magistrale: in totale circa 120 studenti. Come sempre, il primo giorno ho fatto un test (anonimo e privo di valutazione) per avere un’idea del livello medio dei frequentanti; quest’anno, però, ho aggiunto alle domande sulle materie di studio una piccola ricerca sulla “dieta informativa” dei ragazzi, per capire se usano la televisione o Facebook, il quotidiano locale o Twitter. E, soprattutto, per capire cosa ricordano di ciò che vedono o leggono.
I risultati sono questi: il 90% ha una pagina Facebook ma la usa principalmente per i contatti con gli amici. Il 25% ha guardato un telegiornale la sera precedente. Il 10% ascolta la radio (ma solo per la musica). Lo 0% ha comprato un quotidiano. Non è un refuso: dalle risposte risulta che su 120 iscritti a un corso di Comunicazione (e quindi presumibilmente interessati a una carriera nel settore) nessuno acquista un quotidiano.
Poi, scavando più a fondo, si scopre che qualcuno ha risposto di non aver comprato il giornale ma lo legge al bar, o a casa se lo comprano i genitori. Qualcun altro legge le versioni on line di Repubblica piuttosto che del Fatto quotidiano ma la sostanza non cambia: per la generazione dei ventenni italiani dell’anno 2017 la stampa tradizionale è come se non esistesse.
Questo non è di buon augurio per le imprese editoriali ma ce ne occuperemo un’altra volta: penso sia più urgente riflettere su come può funzionare una democrazia se la maggioranza dei cittadini è indifferente alle notizie che incidono sulla qualità della loro vita.
Per esempio, la criminalità. Basta guardare un telegiornale o aprire un quotidiano locale per trovare titoli sul “degrado”, il “Far West urbano”, le “violenze del branco”, quando non veri e propri “massacri”. Un crescendo di allarmi che dietro hanno quasi sempre fatti di modesta entità, o comunque inevitabili in una società industrializzata: per esempio, quel modello di serietà e precisione che è il Sole-24 ore titolava qualche mese fa: “Italia, più di 7500 reati al giorno. Scopri le province criminali” (16 ottobre 2016). Era solo leggendo con attenzione il testo dell’articolo, basato sui dati diffusi dal ministero dell’Interno, che si scopriva che “nel complesso la situazione appare migliorata”, visto che “il totale dei delitti denunciati all’autorità giudiziaria è diminuito del 4,5%” e che “l’arretramento delle denunce interessa quasi tutte le tipologie di reati”.
I titoli, le locandine, le fugaci immagini del telegiornale non sono innocenti: creano impressioni durevoli, sensazioni amplificate dai casi clamorosi che periodicamente vengono proposti alla nostra attenzione. Nel gergo degli studiosi di comunicazioni di massa, i media creano la “salienza” di avvenimenti o temi che, in sé, non sono né più né meno importanti di altri fenomeni. Il terrorismo è stato imposto da Donald Trump al- l’attenzione degli americani benché il numero di vittime di attentati sia insignificante rispetto al numero di vittime di omicidi di altro tipo, o di incidenti stradali, o di incidenti sul lavoro.
I miei studenti non sono del tutto disinformati: evidentemente l’attenzione ossessiva che dedicano ai loro smart phone dà qualche risultato: per esempio la grande maggioranza di loro concorda sul fatto che gli omicidi in Italia non sono aumentati negli ultimi anni. Però, chiedendo loro quante sono le vittime di uccisioni si incontrano solo sguardi vuoti. Insistendo, e proponendo delle cifre, si ottengono risposte vaghe, fino a che uno di loro (tra i migliori del gruppo) azzarda: “Cinque o seimila?”.
Gli omicidi nel 2015 sono stati 469, quindi la percezione che molti ragazzi hanno del fenomeno è che le sue dimensioni siano oltre dieci volte quelle reali. Per dare un minimo di contesto: l’Italia non ha mai avuto più di 2.000 omicidi, neppure negli anni peggiori delle stragi di mafia e di camorra, il picco fu raggiunto nel 1992 e da 25 anni il trend è regolarmente in discesa.
Un’altra scoperta interessante del test è che ne ho discusso i risultati l’8 marzo, mentre fuori dalle finestre dell’aula risuonavano le musiche e gli slogan dei cortei. Oltre a chiedere il numero complessivo di omicidi, ho chiesto qual era, secondo gli studenti presenti, la ripartizione per genere delle vittime: metà e metà? Due terzi-un terzo? La maggioranza dei fatti di sangue riguardava gli uomini o le donne?
Risposta praticamente unanime: la maggior parte delle vittime sono donne.
Cosa ci dicono i dati del ministero dell’Interno? Che nel 2016 le donne uccise sono state 107, in diminuzione del 3% rispetto all’anno precedente. Quindi, le vittime di sesso femminile sono circa il 23% del totale, meno di una su quattro. La campagna di sensibilizzazione “Non una di meno” è meritoria, e dal punto di vista comunicativo è stata certamente efficace: gli studenti ne hanno tratto l’impressione che la violenza contro le donne sia un’epidemia dilagante. La realtà è che sono diminuite le lesioni (-11%), le percosse (- 19%), le minacce (-16%), le violenze sessuali (-13%), i maltrattamenti in famiglia (-6%) e lo stalking – atti persecutori (-11%).
Le percezioni distorte di fenomeni sociali rilevanti, come la criminalità, l’immigrazione, la disoccupazione, sono un problema perché inducono i cittadini ad appoggiare, o a non ostacolare, politiche che vanno contro i loro interessi. Per esempio, l’Italia ha un numero abnorme di addetti alle sicurezza. Abbiamo quattro corpi distinti: la polizia di stato, i carabinieri, la guardia di finanza, la polizia penitenziaria, a cui vanno aggiunti la guardia costiera, i corpi forestali, le polizie provinciali e quelle locali. Senza contare i reparti dell’esercito impegnati nell’operazione “strade sicure”.
Questa militarizzazione del territorio non è obiettivamente giustificata né dalle minacce terroristiche, né dalle dimensioni della criminalità organizzata: è un retaggio della lotta alla mafia e al terrorismo che nessun governo ha il coraggio di rimettere in discussione. Il costo di questo apparato imponente potrebbe essere ridimensionato e i risparmi potrebbero essere impiegati diversamente, per esempio per il diritto allo studio, l’edilizia scolastica, il miglioramento degli stipendi degli insegnanti o l’integrazione dei rifugiati. Queste politiche vengono invece sacrificate a “superiori” ragioni di bilancio che dipendono da percezioni infondate.
Naturalmente il problema di impressioni superficiali ed errate riguarda la cittadinanza nel suo complesso ma è particolarmente grave che un gruppo più scolarizzato e, teoricamente, più informato degli altri (in fondo l’università è una condizione privilegiata rispetto a quella della casalinga di Voghera) sia così distante dalla realtà e quindi incapace di scelte razionali in politica.
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Fabrizio Tonello è docente di Scienza politica presso l’università di Padova, dove insegna, tra l’altro, un corso sulla politica estera americana dalle origini ad oggi. Ha insegnato alla University of Pittsburgh e ha fatto ricerca alla Columbia University, oltre che in Italia (alla SISSA di Trieste, all’università di Bologna). Ha scritto L’età dell’ignoranza (Bruno Mondadori, 2012), La Costituzione degli Stati Uniti (Bruno Mondadori, 2010), Il nazionalismo americano (Liviana, 2007), La politica come azione simbolica (Franco Angeli, 2003).
Da molti anni collabora alle pagine culturali del Manifesto.
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