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Numero 5 - Novembre 2017
Numero 5 Novembre 2017

Francia: la narrazione del lifelong learning

Anche in Francia si combatte contro i “fannulloni” con la formazione continua. In realtà non si smette mai di imparare e più che dedicarsi alle nuove tecnologie sarebbe meglio imparare cose che” meritino” un investimento di lungo, anzi lunghissimo termine


28 Ottobre 2017 | di Roberto Casati

Francia: la narrazione del lifelong learning Di recente il governo francese ha deciso di spostare una consistente fetta di risorse da un dispositivo di impiego assistito a un programma di formazione continua. (Gli impieghi assistiti permettevano a molte associazioni di reclutare del personale con un finanziamento pubblico, e la decisione governativa ha creato non pochi problemi al mondo associativo). Le ragioni per la decisione sono complesse e, in buona parte, politiche, ma l'argomento fondamentale è che la formazione risulterebbe essere il modo più efficace di combattere la disoccupazione; in particolare, per quella fascia di persone che non ha avuto una formazione iniziale sufficiente, lo strumento principe è l'apprendimento permanente. Forse non è chiarissimo in che modo togliere il lavoro a persone che già lavorano per mandarle a scuola permetta di ottenere l'obiettivo a lungo termine; se uno lavora viene automaticamente formato al lavoro: gli impieghi assistiti hanno per l'appunto il duplice vantaggio di mettere le persone in condizione di lavorare, e a partire da qui costruire anche un percorso di apprendimento che si inserisce in una prospettiva magari meno difficile di quella dell'uscita dalla disoccupazione.
Direi che si tratta di un episodio tra i tanti nella saga del lifelong learning, o apprendimento permanente. Dato che il mio contributo in questo intervento è quello di assistere la decisione individuale e pubblica nella definizione delle scelte che riguardano la nostra vita, scelte con conseguenze anche a lungo termine, direi che per poter fare queste scelte con cognizione di causa è importante che utilizziamo i concetti giusti, e questi sono spesso immersi in narrazioni che possono aiutare come pure possono confondere le idee. Per esempio, il messaggio della decisione francese è arrivato in un contesto estivo in cui si è parlato a lungo del “problema” dei “fannulloni” (il presidente Macron ha utilizzato questo termine, poi molto ripreso dalla discussione pubblica). In buona sostanza, l'equazione che si è delineata è che gli impieghi assistiti sarebbero situazioni comode, sinecure per persone che non intendono veramente prendere in mano il proprio destino, formarsi per affrontare la nuova realtà di un lavoro che cambia e deve adattarsi al costante rinnovo tecnologico. Come è stato detto in modo molto efficace, ancorché, il messaggio è alla fine, “cercate di adattarvi, trovate il modo di sopravvivere.” 
 
Imparare lungo tutto l'arco della vita è allora uno dei cardini di questo episodio nella lotta per la sopravvivenza, come tale si inquadra perfettamente in un'altra narrazione, quella della società della conoscenza, e come tale viene presentato, insieme ad altre immagini che fanno da corollario a questa narrazione; immagini di contesto, come la rivoluzione digitale, la velocità e l'inarrestabilità del cambiamento; e strumenti e innovazioni, come l’educazione informale, e l’imparare ad imparare. Vediamo alcuni punti, in ordine.
 
Anzitutto, la sfida della trasformazione del lavoro viene di solito appiattita sulla rivoluzione digitale. La formazione permanente porta nella stragrande maggioranza dei casi non tanto su nuovi approcci ai problemi, o su scoperte recenti sulla cognizione umana o sulle trasformazione dell'ambiente, ma sull'uso di nuove tecnologie: nuovi programmi di gestione, come creare tweet aziendali in modo efficace, eccetera. Ora, come è stato detto più volte, le tecnologie richiedono in realtà sempre meno apprendimento per essere usate. La ragione per cui sono penetrate in modo pervasivo nelle nostre vite è per l'appunto la loro sempre crescente semplicità d'uso. Qui la richiesta della formazione è ridondante, e sembra quindi soltanto un modo di rinforzare il messaggio (“se ancora non lo fate, è il momento di mettere in cantiere dei tweet aziendali”).
 
Credo che ci siano problemi più profondi. Bisogna soprattutto sgombrare il campo da un equivoco sulla nozione di apprendimento, sull'imparare. Da come la cosa ci viene raccontata, è come se a un certo punto uno smettesse di imparare, si impigrisse, avesse bisogno di uno scossone; altrimenti diventerebbe un pantofolaio davanti alla televisione, un fannullone per l'appunto. È qui che accorrerebbe, soccorrendo, il lifelong learning. In realtà, il nostro cervello non cessa mai di imparare, è anzi una macchina costruita nella sua più intima architettura per imparare e ancora imparare, sempre e da tutte le situazioni. Ci vogliono patologie severe per scalfire questo pilastro della vita mentale; fino all'ultimo respiro, se siamo in salute, impareremo, direi quasi nostro malgrado, perché siamo stati programmati dall'evoluzione per farlo, non perché qualcuno ci dice che è bene farlo o ci obbliga a farlo. (E difatti uno dei problemi irrisolti della formazione, permanente o meno, è proprio di non mortificare questa immensa risorsa annegandola in programmi di insegnamento che frenano.)
 
Un elemento connesso che è scomparso dalla discussione pubblica è che comunque alcune professioni e attività (e forse tutte) sono già intrise di apprendimento permanente. Pensate a chi disegna o suona uno strumento, a chi naviga, a chi si occupa della cura di una persona. Pensate, naturalmente, a chi insegna, che impara da ogni nuovo allievo o allieva. Se volete un esempio ancora più alla mano, pensate all’attività genitoriale, o forse dovrei dire la professione genitoriale, un tempo pieno supplementare che comincia alla fine della giornata lavorativa e finisce quando ricomincia la giornata lavorativa successiva. I genitori imparano costantemente dai figli, e l’apprendimento è necessariamente permanente: a qualsiasi età dei figli c’è qualcosa di nuovo che va appreso, e non appena lo si è appreso, si viene scavalcati dalla novità seguente. Nel giro di duecento settimane un bambino passa dalla dipendenza totale a un’autonomia illusoria e pericolosa, sa parlare e a cantare, infligge punizioni, capisce gli scherzi, e immagazzina dalle cinque alle dieci parole nuove ogni giorno. Il genitore cerca di tenere il passo, impara e poi impara ancora.
 
Se proprio si volesse essere normativi, o anche soltanto propositivi, si potrebbe richiedere non tanto di seguire dei corsi astratti di un astratto apprendimento permanente per rincorrere le ultime novità, per “tenersi aggiornati”; ma di cercare invece di imparare cose che per la loro complessità richiedono una vita per essere imparate. Cose che meritino un investimento di lungo, anzi lunghissimo termine.




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Roberto Casati è un Filosofo italiano, studioso dei processi cognitivi. Attualmente è Direttore di ricerca del Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS), presso l'Institut Nicod a Parigi. Esponente della filosofia analitica, già docente in diverse università europee e statunitensi, è autore di vari romanzi e saggi, tra cui La scoperta dell’ombra (2001), tradotto in sette lingue e vincitore di diversi premi, la raccolta di racconti filosofici Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici (2006), Prima lezione di filosofia (2011) , Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere (2013),  recensito in “ Professione docente”, settembre 2016, con un’ intervista all’ autore e La lezione del freddo, presso Einaudi,  una filosofia e un manuale narrativo di sopravvivenza per il cambiamento climatico. 
 
 
 


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Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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