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Numero 5 - Novembre 2017
Numero 5 Novembre 2017

Senza riti di passaggio, l’ immaturità è di massa

Il problema dell’immaturità degli studenti mi sembra più vasto di quanto apparisse dall’articolo di Piero Morpurgo “Il buonismo non aiuta” pure di ispirazione perfettamente condivisibile


28 Ottobre 2017 | di Fabrizio Tonello

Senza riti di passaggio, l’ immaturità è di massa Sede: università di Padova. Corso: scienza politica. Presenti in aula: 120 circa. Età media: 21. Tema della lezione: governo e parlamento. Dopo 45 minuti di risolini, chiacchiere, bigliettini e ossessiva consultazione dei cellulari da parte di tutti gli studenti, tranne due signori di mezza età seduti in prima fila, mi sono ritrovato a fare il seguente discorso: “Sapete, oggi ho scoperto una cosa stupefacente”. Pausa, il brusio si attenua. “Grazie a voi ho scoperto che si può andare all’asilo e poi saltare le elementari, aggirare le medie, schivare le superiori e iscriversi ugualmente all’università”. Silenzio, sguardi perplessi in aula. “Sì, è senz’altro andata così: voi siete andati all’asilo e poi, miracolosamente, siete comparsi qui all’università, dove vi comportate come se foste appena scesi dalle giostre. Purtroppo, però, qui non siamo attrezzati di palette e secchielli per giocare con la sabbia, quindi avete due alternative: o ve ne state zitti, buoni e con i telefonini spenti fino alla fine della lezione, oppure ve ne andate fuori per vedere se c’è qui vicino un negozio dove vendono dei lecca-lecca. O, se preferite, me ne vado io”.
La lezione è quindi proseguita in un clima relativamente tranquillo, naturalmente al prezzo di trovare una classe dimezzata il giorno dopo. Riflettendoci, il solo fatto che all’università possa essere necessario tenere discorsi di questo genere fa pensare che il problema dell’immaturità degli studenti sia più vasto di quanto apparisse dall’articolo di Piero Morpurgo “Il buonismo non aiuta”, pure di ispirazione perfettamente condivisibile. Se la questione si limitasse ad essere più severi con gli studenti, infatti, forse le nostre matricole saprebbero qualche data, nome o formula in più ma non cambierebbe di molto il loro difetto più grave e cioè la loro generalizzata, profonda, apparentemente irrimediabile immaturità anche in un’età in cui possono votare, sposarsi, arruolarsi nei paracadutisti se lo desiderano.
Se l’immaturità del singolo è un problema psicologico, l’immaturità di massa è ovviamente un problema sociale con radici profonde: quando i ventenni giocano a nascondino questo comportamento deve forzatamente essere il risultato dell’imitazione di adulti che fanno cose analoghe. Come scrive il sociologo Frank Furedi, “Un adulto non è solo un individuo, ma un simbolo vivente del ‘mondo dei grandi’, e il suo atteggiamento contiene segnali precisi riguardo a ciò che i grandi si aspettano da chi sta crescendo”[1].
Questi segnali, negli ultimi 40 anni, sono andati massicciamente e coerentemente nella stessa direzione: quella dell’infantilizzazione. Non tanto dei bambini (che al contrario spesso manifestano comportamenti fin troppo “seri”) quanto degli adulti, che nel vestire, nei rapporti personali, nell’uso dei media, negli acquisti, si comportano da eterni adolescenti fino al momento in cui la cassiera del cinema chiede loro se hanno la Carta d’argento. In un libro assai in anticipo sui tempi, Francesco Cataluccio sottolineava che furono i romantici a fare della giovinezza “uno stato ontologico che si estende al di là dei confini puramente biologici. Essa diviene un modo di vivere l’arte e la vita”[2]. Del resto, Jacques Brel l’aveva già intuito nel 1967: Il nous fallut bien du talent/Pour être vieux sans être adultes, c’è voluto del talento per diventare vecchi senza diventare adulti.
Ovviamente, la società dei consumi è il motore di questo processo: se per caso entrate in un negozio Bialetti con l’intenzione di comprare delle banali capsule del caffè, è assai probabile che la commessa insista per proporvi una macchina per l’espresso a forma di cuore rosso fiammante, una batteria di pentole ugualmente della stessa forma, mentre cuoricini di plastica vi permetteranno di avere pasticcini romantici fatti in casa. Superfluo aggiungere che le tazze di tutte le dimensioni hanno adottato lo stesso design, senza dimenticare piatti, presine e altri accessori. Non c’è bisogno di aspettare l’arrivo di sciropposi biglietti di S. Valentino: il “cuore-che-fa-rima-con-amore”, un tempo riservato ai diari segreti delle tredicenni, ora si propone come oggetto di consumo universale e senza età.
Nello stesso tempo, la televisione fa il suo lavoro: definisce “ragazze” le quarantenni e magari le  cinquantenni che si tengono in forma, promuove i pianti (e i piagnistei) in pubblico come marchio di autenticità, stimola le madri a rubare i jeans stracciati alle figlie. Dilagano le trasmissioni culinarie, e nei quiz si sente chiedere: “Per la polenta si usa il mais o le patate?”. Nei talk-show i politici fingono di essere più ignoranti di quanto non siano, magari vantandosi di non sapere nulla di storia e di non aver mai capito niente di geografia, mentre i genitori esaltano la figlia che va malissimo a scuola ma sa ballare e i comici illustrano con orgoglio le proprie brevi e deludenti carriere scolastiche. Tutti, poi, fanno del loro meglio per storpiare l’italiano.
Per definizione, un adulto è qualcuno che ha acquisito la capacità di interagire con la società, un processo che inizia con il faticoso riconoscimento, nel bambino, che il mondo non ruota attorno a lui. Questo risultato, nelle società tradizionali, si otteneva sottoponendo l’adolescente a prove più o meno dure o crudeli secondo le condizioni locali, riti di passaggio il cui scopo era mettere fine al felice (e allora brevissimo) periodo di irresponsabilità. Eliminati i riti di passaggio, reso il telefonino un accessorio universale fin dai 6 anni, finalmente il sogno di Peter Pan è stato realizzato: tutti possiamo restare bambini.
Una comunità che si identifica nel Puer Aeternus, tuttavia, ha delle controindicazioni: l’adulto-bambino di oggi “manifesta una sorta di individualismo asociale: sentendosi una creatura speciale, ritiene di non doversi adattare [alla società] perché questo sarebbe chiedere troppo”[3]. In realtà l’individualismo di massa sfocia rapidamente nei selfie e nel conformismo più piatto, unito a esplosioni di rabbia tipiche di chi non ha imparato a controllare le proprie emozioni. La fatica di pensare, di esaminare razionalmente i problemi, di studiare, viene ovviamente respinta in nome dell’immediatezza, dell’espressione dei sentimenti... e del cellulare che permette di controllare le date di nascita di Justin Bieber o, se proprio necessario, di Giustiniano imperatore.
Di fronte all’immensità delle forze tecnologiche e culturali che lavorano per infantilizzare gli adulti il compito dei docenti sembra disperato, e in effetti lo è. Tuttavia, la scuola è rimane un’agenzia educativa forte: i giovani ci devono andare, devono rispettare gli orari e, sia pure mugugnando, devono fingere di ascoltare le lezioni e sottoporsi agli esami. Questa struttura permetterebbe a docenti creativi e con le idee chiare di affrontare le loro classi nell’ottica di insegnare agli studenti a crescere, più che a memorizzare le tabelline, i verbi irregolari o la scienza politica. Il nostro compito è stimolare la curiosità, il pensiero critico, il senso di responsabilità, scontrandoci in primo luogo con la burocrazia scolastica e, contemporaneamente, con  genitori tanto immaturi quanto iperprotettivi. Solo in quest’ottica la ribellione dei docenti sarà utile, solo in quest’ottica sarà possibile.
 
 
 
 

[1] Frank Furedi, Fatica sprecata. Perché la scuola oggi non funziona, Vita e Pensiero, Milano 2012.
[2] Francesco Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, Einaudi, Torino 2004.  Si veda, anche, sullo stesso tema,  G.Zagrebelsky, Senza adulti, Einaudi, Torino 2016.
[3] Cataluccio, p. 27.
 
 


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Numero 5 - Novembre 2017
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
Comitato di Redazione:
Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Roberto Casati, Giulio Ferroni, Sebastiano Leotta, Marco Morini, Fabrizio Tonello,
Sergio Torcinovich, Ester Trevisan