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Numero 3 - Maggio 2018
Numero 3 Maggio 2018

Crisi dell’ autorità adulta

Un contributo decisivo alla politica dell’erosione della professione docente lo hanno dato i diversi ministri che si sono succeduti nel palazzo di Trastevere, dal quale sono usciti documenti indirizzati alle scuole nei quali il termine insegnante diventava di volta in volta mediatore culturale, operatore di competenze, ... fino all’ultimo ritrovato: “facilitatore” di conoscenze.


18 Aprile 2018 | di Gianluigi Dotti

Crisi dell’ autorità adulta In questo ultimo anno scolastico, i mezzi di informazione raccontano dei sempre più numerosi episodi di aggressioni violente, da parte di alunni e genitori, di cui sono vittime gli insegnanti. Episodi che colpiscono i docenti di ogni ordine di scuola, dall’infanzia alle superiori, e si verificano in tutte le regioni d’Italia, senza distinzione tra nord, centro, sud e isole.
Molti presunti esperti di cose scolastiche, anche autorevoli, hanno espresso sui quotidiani e in televisione una “candida” sorpresa di fronte a questi gravi episodi, come se improvvisamente scoprissero quello che tutti i docenti sanno da tempo: la “solitudine educativa”degli insegnanti e le sempre più grandi difficoltà nella gestione delle classi in un contesto in cui imperversa la pedagogia “student-centre” e quella del “tutto è permesso”.
Verrebbe da dire che non ci sono più i “giornalisti di una volta”, quelli delle inchieste. Infatti non è difficile scoprire che il fenomeno delle violenze sugli insegnanti è conoscenza comune ai docenti dei sistemi scolastici occidentali. Ad esempio, la maggioranza degli insegnanti francesi è assicurata a proprie spese contro le violenze di genitori e alunni.
Degli episodi che, in un altro articolo su questo giornale, Ester Trevisan ricorda colpiscono le “motivazioni” accampate dagli studenti e dai genitori che si sono macchiati di questi veri e propri atti criminali perché    è bene precisare che le violenze sugli insegnanti sono reati penali. Gli studenti, e i loro genitori, aggrediscono i docenti per un richiamo di fronte ad un comportamento maleducato in classe (telefoni cellulari, parolacce, ecc.); per una valutazione non positiva;per una nota disciplinare e così via, cioè tutte quelle situazioni che rientrano nella normalità della vita scolastica di tutti i tempi e per le quali gli insegnanti hanno l’obbligo sia come adulti sia, soprattutto, nella loro funzione istituzionale di intervenire. Per non tacere di quei casi in cui l’unica motivazione sembra essere il bullismo e lo stupido gioco di adolescenti.
Ad esaminare i motivi si può dire che siamo nel campo di quelli che nel processo penale sono indicati come “futili motivi” e che sono considerati un’aggravante per la sanzione.
Considerato il fatto che i comportamenti scorretti degli alunni e le valutazioni negative nelle materie scolastiche da sempre fanno parte della scuola e premesso che non è ammissibile imputare ai docenti che intervengono intenzioni provocatorie (altrimenti si fa come gli accusati di stupro che sostengono di essere stati provocati dall’abbigliamento della vittima) ci si deve interrogare su quali siano gli elementi che negli ultimi decenni hanno portato alla situazione attuale.
Un filone sempre più numeroso di analisti e studiosi dei sistemi scolastici occidentali individua nell’erosione dello spazio professionale dei docenti e nella crisi dell’autorità adulta le cause della perdita di prestigio e del mancato rispetto degli insegnanti da parte di alunni e genitori, vere ragioni queste ultime dei fenomeni di degrado che colpiscono anche in forme violente gli insegnanti.
L’argomentazione di questi studiosi, tra cui cito Frank Furedi che ha già scritto sul nostro giornale, ha come presupposto che la professione docente è una professione intellettuale perché ha il compito istituzionale di trasmettere cultura. Nella relazione asimmetrica con i giovani discenti l’insegnante è tale se ha contenuti da trasmettere, contenuti che sono le basi della cultura stratificata del passato. È per questo che viene riconosciuto e rispettato come “maestro” dalle giovani generazioni che hanno la consapevolezza di avere bisogno di quelle basi culturali per costruire il loro futuro.
Esattamente l’opposto di quello che si è fatto nei sistemi scolastici occidentali, compresa l’Italia, negli ultimi decenni. Infatti, gli insegnanti sanno bene che il “brodo” della cultura pedagogica e la retorica dell’informatizzazione hanno condizionato la politica scolastica e hanno favorito la “confusione dei ruoli”.
Nella relazione paritaria tra docente e discente l’insegnante non è più colui che trasmette cultura, ma quello che apre il “vaso di Pandora” dove si trovano già tutti i contenuti e il sapere disciplinare. Addirittura si è scritto che è l’insegnante che deve imparare dal discente e qui la confusione ha raggiunto il suo apice con il ribaltamento della relazione asimmetrica: il docente tra i banchi e l’alunno in cattedra.
Un contributo decisivo alla politica dell’erosione della professione docente lo hanno dato i diversi ministri che si sono succeduti nel palazzo di Trastevere, dal quale sono usciti documenti indirizzati alle scuole nei quali il termine insegnante diventava di volta in volta mediatore culturale, operatore di competenze, ... fino all’ultimo ritrovato: “facilitatore” di conoscenze.
Se l’insegnante perde il suo prestigio perché viene meno la sua funzione professionale di trasmettere cultura attraverso le discipline e diventa una sorta di “badante” di lusso delle giovani generazioni, che nulla hanno da imparare da un “badante”, ecco che tutto diventa lecito, tutto diventa un gioco, anche prendere in giro o usare violenza sul docente.
Anche molti Dirigenti scolastici sono stati “affascinati” dalla scuola come “progettificio social-assistenziale” al servizio di alunni e famiglie e nella spasmodica ricerca del consenso di questi ultimi sono spesso i primi a mettere sotto accusa l’insegnante, che non ha altre colpe che aver svolto con professionalità la propria funzione. Al contrario,  mille sono le ragioni che trovano per giustificare- sempre e comunque- i comportamenti di studenti e genitori con un buonismo che non fa altro che peggiorare la condizione di “solitudine educativa” dell’insegnante.
Il buonismo contagia anche molti insegnanti, comprese le vittime di soprusi e violenze, che tendono a giustificare e “perdonare” chi si è macchiato di questi comportamenti scorretti e di queste violenze.
Qui però non si tratta di essere buoni o cattivi, questi sono infatti giudizi morali che andrebbero evitati, e in ogni caso non possono incidere assolutamente sul reato commesso.  L’ insegnante che perdona dimostra di non sapere che l’offesa ricevuta  non era rivolta alla sua persona ma al suo ruolo e quindi il perdono non conta  nulla.   Si tratta invece di intervenire perché non si verifichino più episodi di violenza contro i docenti.
Per questo bisogna nell’immediato punire severamente chi si macchia di queste violenze: alunni o genitori che siano,  senza fare sconti. Le severe sanzioni non sono però sufficienti se non vengono affiancate da una politica scolastica che promuova la professione docente con la funzione di trasmettere cultura attraverso le discipline e che, nel rispetto di tutti coloro che fanno parte della comunità scolastica, in particolare dei discenti, definisca il ruolo di ciascuno sottolineando la relazione asimmetrica tra insegnante e studente per evitare la confusione dei ruoli.
Questo è possibile solo in una scuola che è riconosciuta come Istituzione alla quale è conferito dall’intera società il mandato di formare le nuove generazioni attraverso la trasmissione della cultura. In questa scuola l’insegnante è l’interprete principale e la dignità del suo ruolo incute il dovuto rispetto.
Nella scuola social-assistenziale dei nostri tempi, una scuola al servizio del consumatore, dove l’insegnante è un badante che deve cercare il consenso di studenti e famiglie, nella quale viene valutato dagli utenti con custumer satisfaction di tipo aziendale per quanto è simpatico, giocherellone, buono, piacente,  la dignità del ruolo viene meno assieme al rispetto e compaiono invece le violenze e le aggressioni.
 
 
 


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Numero 3 - Maggio 2018
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
Comitato di Redazione:
Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Giovanni Carosotti, Roberto Casati, Vito Carlo Castellana, Alberto Dainese, Marco Morini, Emilio Pasquini, Adolfo Scotto di Luzio,
Fabrizio Tonello, Ester Trevisan