L’Appello intende ribadire il ruolo centrale e irrinunciabile dei saperi teorici, delle discipline per la crescita intellettuale degli studenti, e per sviluppare in loro il senso critico, mettendoli in condizione di intervenire con responsabilità nel dibattito democratico.
18 Aprile 2018 | di Giovanni Carosotti
L’Appello per la scuola pubblica (può essere letto al seguente link ed è ancora possibile aderirvi) ha sicuramente scosso in modo positivo i docenti italiani. Non solo per il consenso che ha ottenuto (oltre 12.000 firme; tra cui quelle di numerosi intellettuali di area sia umanistica sia scientifica), ma soprattutto perché ha dimostrato come la narrazione dominante, tesa a squalificare i saperi teorici e a sostituirli con costrutti basati su metodologie di dubbia efficacia, non ha convinto buona parte dei lavoratori intellettuali del nostro Paese, sia nel mondo della scuola sia dell’università. L’Appello è nato da una sfida, pensata da sette docenti di scuola secondaria superiore e da un docente dell’Università Bicocca di Milano, i quali si sono conosciuti casualmente, incontrando sulla rete e presso i social i rispettivi contributi critici nei confronti della Legge 107 e, più in generale, dei fondamenti teorici alla base delle politiche riformatrici dell’ultimo ventennio. Diversi i punti di vista condivisi: innanzitutto la convinzione che la cosiddetta “didattica innovativa” non sia affatto validata scientificamente, come pure sostengono i documenti ministeriali, e che dunque non risulta affatto un’esigenza epocale la radicale trasformazione della professione docente. Lo dimostra, oltre alla concreta esperienza di relazione con gli studenti vissuta nel quotidiano, la numerosa e prestigiosa letteratura critica, che smaschera la vacuità sia del concetto di “competenze”, sia della presunta efficacia cognitiva che deriverebbe da una totale digitalizzazione dell’attività didattica. Questa valutazione –è questo uno dei presupposti dell’Appello- è condivisa dalla maggioranza dei colleghi i quali però, in questi anni, non hanno più trovato un referente unitario per esprimere il loro pensiero in forma organizzata. Il carattere autoreferenziale dei documenti ministeriali con cui si impongono nuove metodologie senza minimamente prendere in considerazione i dati falsificanti, la lingua utilizzata negli stessi, violentemente e volutamente ostile a qualsiasi serio confronto sul piano intellettuale, ha pesantemente condizionato i docenti.
La grande sconfitta maturata con l’approvazione, attraverso un voto di fiducia, della Legge 107, non solo aveva diffuso un sentimento di demoralizzazione generalizzata, ma addirittura instillato un senso di colpa presso molti colleghi che giudicavano la loro diffidenza verso le nuove pratiche come una loro mancanza, e non come una limitazione di fatto della loro libertà d’insegnamento. Era necessario –questa la convinzione degli estensori dell’Appello- una sorta di detonatore, che raccogliesse questo dissenso disperso attorno ad alcuni principi comuni, dimostrando che il “re è nudo”, e che dietro le presunte innovazioni non c’è una rivoluzione scientifica, ma una modalità autoritaria di trasformazione della scuola, per renderla coerente con esigenze estranee a quelle che aveva concepito la democrazia repubblicana.
Il documento si concentra allora su sette punti, ritenuti i contenuti maggiormente caratterizzanti la Buona Scuola, denunciandone l’inidoneità a realizzare gli obiettivi più autentici nella formazione dei futuri cittadini. L’Appello intende ribadire il ruolo centrale e irrinunciabile dei saperi teorici, delle discipline per la crescita intellettuale degli studenti, e per sviluppare in loro il senso critico, mettendoli in condizione di intervenire con responsabilità nel dibattito democratico. Questa finalità risulta invece estranea al processo riformatore che privilegia –senza che nessuno abbia realmente discusso un tale cambio di paradigma- le logiche di mercato, individuando come esito esclusivo della scuola quello –peraltro impossibile da realizzare- di assicurare ai futuri studenti un inserimento positivo nel mercato del lavoro. Da qui la critica, al primo punto, della nozione di «competenza». Qualcuno ha contestato all’Appello di avere artificiosamente separato le competenze dalle conoscenze; una critica senza fondamento, dimostrato dal continuo richiamo agli obiettivi formativi irrinunciabili e all’obiettivo dell’inclusione. Sono stati semmai i teorici delle competenze a porre in atto tale separazione sostenendo l’opportunità di amputare, selezionare, ridurre a piacimento i contenuti disciplinari, considerati quale puro pretesto per acquisire una metodologia, per lo più di ordine pratico, da applicare nei più diversi contesti. Questa subordinazione dei contenuti di cultura alla dimensione pratica, il valorizzare al massimo lo strumento con cui insegnare a scapito dei contenuti che dovrebbe veicolare, ritornano negli altri punti dell’Appello (dedicati alla didattica digitale, a quella laboratoriale, nonché all’Alternanza scuola-lavoro).
Ma quale tipo di scuola sembra immaginare l’Appello? La domanda risulta cruciale poiché, nelle numerose critiche che sulla rete hanno cercato di contrastare il crescente successo del documento, se ne denunciava il carattere conservatore, nostalgico di un modello di scuola classista ed elitario. La lettura dei punti non lascia però spazio a questo tipo di valutazioni; proprio perché, accanto alla denuncia delle criticità di alcune innovazioni a senso unico, vengono evidenziate le lacune che tali scelte metodologiche determinerebbero sul piano formativo, ma anche il loro venire meno al principio costituzionale dell’eguaglianza. Anzi, il documento accetta la sfida lanciata dal mondo contemporaneo (la capacità di comprendere la realtà del presente e la trasformazione sociale in atto, il tema dell’interculturalità, della creatività e dello spirito critico; della complessità dell’apprendimento), e ritiene che non possa essere vinta da criteri didattici e da forme di valutazioni formalizzanti, ossessionate dalla riduzione quantitativa, dall’annullamento della relazione costante e in evoluzione tra docente e alunno e interna al gruppo classe.
Proprio perché il testo dell’Appello denuncia sia il carattere impositivo dei documenti ministeriali, sia l’assenza di un serio confronto con gli insegnanti, esso, nella parte finale, più che dare indicazioni precise sul piano normativo –che potrebbero scaturire solo da un confronto finalmente ampio e paritario tra tutte le componenti della scuola- pone alcune richieste tese a evitare che lo stravolgimento della scuola pubblica diventi irreversibile. Innanzitutto una moratoria su tutte quelle attività che, per la loro stessa natura, contribuiscono a deformare gli aspetti più esclusivi della professione docente: dalle pratiche già obbligatorie (CLIL e ASL), al nuovo esame di Stato (ruolo dell’INVALSI e dell’esperienza di ASL). Quindi auspica la riapertura «di un ampio dibattito governo-Scuola di base-organizzazioni sindacali-cittadinanza su tutto l’impianto della Legge 107». Ovvero contrapporsi a quella logica che individua negli insegnanti un gruppo professionale la cui esperienza si rivela inutile nel nuovo contesto formativo, e che dunque devono rassegnarsi ad applicare metodologie e pratiche decise da soggetti esterni alla scuola, recepiti attraverso corsi di formazione obbligatoria quasi tutti estranei alla didattica disciplinare.
_______________________________________________
Giovanni Carosotti, estensore, insieme con altri, dell’ Appello per la scuola pubblica
Condividi questo articolo: