Servono i compiti a casa? A che cosa servono veramente? La ricerca in scienze cognitive parla di un buon effetto test la ma ricerca indica anche qualcosa di meno intuitivo, ovvero che se si vogliono ottenere risultati a lungo termine, conviene distribuire i compiti nel tempo in un modo un po' diverso da come si fa oggi.
18 Aprile 2018 | di Roberto Casati
Non ho sottomano statistiche affidabili, ma direi che i compiti a casa non piacciono veramente a nessuno: poco agli insegnanti, molto poco ai genitori, pochissimo agli studenti. In Francia i compiti scritti sono addirittura vietati per legge. Il ragionamento è questo: i compiti introdurrebbero o accentuerebbero le disparità sociali, con conseguenze dirette sulle disparità di rendimento scolastico. È noto che le famiglie culturalmente o economicamente avvantaggiate investono una parte del tempo dei genitori nell'accompagnamento domestico dello studente; sia perché credono nel ruolo di accompagnamento genitoriale, sia perché, semplicemente, dispongono del tempo necessario a svolgere questo ruolo. Per minore visione strategica sull'istruzione dei propri figli, o semplicemente per mancanza di tempo, le famiglie meno fortunate trascurano i compiti a casa, e questo a sua volta ha un'incidenza sui risultati scolastici. Come sempre piove sul bagnato, insomma.
Ma servono i compiti a casa? A che cosa servono veramente? Il buon senso suggerisce che siano utili, partendo dall'assunto che più uno fa una cosa, meglio finisce per farla, ma il buon senso potrebbe non essere una guida affidabile. La ricerca in scienze cognitive parla per esempio di un buon “effetto test”. Mettersi alla prova con una verifica del materiale appreso in classe aumenta la capacità di memorizzarlo e di restituirlo, a medio e anche a lungo termine. E di converso, studiare a fondo il giorno prima della verifica migliora i risultati (senza sorprese).
Al tempo stesso, la ricerca indica anche qualcosa di meno intuitivo, ovvero che se si vuole lasciare un effetto a lungo termine, conviene distribuire i compiti nel tempo in un modo un po' diverso da come si fa oggi. La metafora che possiamo usare è quella del “richiamo” di una vaccinazione. Mentre adesso tipicamente si studia il capitolo A, e si fanno compiti su A il giorno prima della verifica su A, e via dicendo per B e per C, converrebbe introdurre dei piccoli richiami di A quando si studia B, e dei richiami di A e B quando si studia C. In questo modo A (e poi B e C e via dicendo) lasciano tracce molto più durature.
Questa visione a lungo termine è però in conflitto con gli obiettivi strategici dello studente che è interessato al risultato della prossima verifica (per la quale, visto che sarà su B, è inutile studiare il richiamo di A, per quanto piccola sia la dose del richiamo). Se crediamo che lo studente ha torto (sei a scuola per imparare, e non per prendere voti) il sistema scolastico dovrebbe fare delle scelte per smorzare lo strategismo di corto respiro. Tre possibilità, in ordine crescente di impegno: fare verifiche che includono i richiami, fare ogni tanto delle verifiche senza voti, fare tutte le verifiche senza voto.
In ogni caso sembrerebbe importante dare una struttura più meditata al lavoro dei compiti. La ricerca mostra che certi modi di studiare sono più efficaci di altri. Limitarsi a leggere, sottolineare, fare dei riassunti sono meno efficaci che ripetere e fare delle autoverifiche; gli studenti dovrebbero venir incoraggiati a introdurre delle autoverifiche nel loro piano di studio. Ma qui si ritorna al punto di partenza, con una complicazione: se già è problematico l'istituto stesso del compito a casa, per le difficoltà enunciate sopra (disparità tra famiglie che possono seguire i propri figli e famiglie che non possono), ancora più complicato sarà mettere in piedi un piano strutturato di compiti con un'organizzazione interna che richiede assistenza da parte degli adulti.
Questa difficoltà si ritrova nella discussione sulla “classe invertita” o rovesciata, nella quale gli studenti fanno i compiti su A prima del trattamento del materiale A in classe da parte dell'insegnante. Dietro al nome che suggerisce una grande innovazione pedagogica si nasconde il fatto che questo modo di affrontare l'apprendimento è abbastanza comune da molto tempo nell'insegnamento universitario statunitense, nel quale gli studenti nella norma devono leggere il materiale prima della lezione. La classe invertita ha attirato infinite discussioni, entusiasmi e strali, ma direi che c'è un modo semplice di affrontare la questione. Se si crede nei meriti della classe invertita ma si vuole evitare che anch'essa si riveli un ulteriore fattore di disuguaglianza, si potrebbe sperimentare una classe invertita in orario scolastico. Questo richiede la disponibilità di un tempo pieno, ma un tempo pieno alleggerito, in cui una parte dell'orario è sotto la responsabilità degli studenti che al pomeriggio preparano a scuola i contenuti della lezione del giorno dopo.
Lo stesso ragionamento dovrebbe valere per i compiti. Sono importanti, ma non dovrebbero venir svolti a casa. Il luogo a loro più appropriato non è la famiglia ma la scuola, dove gli studenti possono peraltro godere dell'aiuto sistematico dei loro pari nello svolgimento e nella preparazione del materiale di studio, e dove con un minimo di assistenza possono seguire un programma più strutturato che include per esempio i richiami e le autoverifiche in bianco.
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