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Numero 4 - Settembre 2018
Numero 4 Settembre 2018

La formazione iniziale degli insegnanti

Il problema del reclutamento dei professori secondari è non soltanto quello del funzionamento di un meccanismo burocratico; ad essere in questione è l’intero modello della loro formazione culturale di tipo accademico. Vale a dire, niente di meno che l’identità del docente italiano. 


24 Agosto 2018 | di Adolfo Scotto di Luzio

La formazione iniziale degli insegnanti  La crisi della scuola si manifesta sul terreno del reclutamento degli insegnanti in forme più clamorose che altrove. È da anni ormai che il nostro Paese è privo di un modello credibile al riguardo. Dall’ inizio del nuovo secolo si sono succedute scuole di specializzazione, tirocini formativi, percorsi abilitanti e ora la Formazione iniziale e Tirocinio, il cui acronimo è Fit. Ma non sembra finita. Quale sarà il destino dell’ ultimo dispositivo è infatti difficile dire. Nell’ audizione davanti alla settima Commissione di Camera e Senato, all’inizio di luglio, il nuovo ministro della Pubblica istruzione ha lasciato intendere la necessità di una revisione, sulla base di un fantomatico legame dei docenti con il proprio territorio. Nel frattempo, per guadagnarsi l’accesso all’ ennesimo corso-concorso, migliaia di aspiranti professori, in tutta Italia, si sono dati e si stanno dando da fare per procacciarsi i famigerati 24 crediti necessari per partecipare al bando.


Bastano queste considerazioni per cogliere subito un aspetto che a mio avviso è stato poco sottolineato nel dibattito su chi è il «buon professore» della nuova scuola italiana e cioè il rapporto molto stretto tra questione scolastica e questione universitaria. Se volete, la crisi della scuola riflette una più ampia crisi del sistema universitario nazionale. Non è un caso che il problema del reclutamento dei professori secondari vada di pari passo con l’introduzione a partire dal 2001 del nuovo modello accademico concepito sulla base del cosiddetto tre più due. Scuola e Università vanno tenute insieme altrimenti perdiamo di vista quello che è successo in questi anni alle istituzioni formative nel nostro Paese.
Si può infatti discutere sulle cosiddette «criticità» della Fit, ma il fatto è che questa discussione si svolge a valle di una trasformazione profonda della nostra formazione universitaria.
Il problema del reclutamento dei professori secondari è infatti non soltanto quello del funzionamento di un meccanismo burocratico; ad essere in questione è l’intero modello della loro formazione culturale di tipo accademico. Vale a dire, niente di meno che l’identità del docente italiano: quali meccanismi istituzionali presiedono alla sua formazione e come sono cambiati in questi anni e con quali esiti? È su questo terreno più generale, infatti, che si è prodotto un vasto e profondo smottamento. Come dicevo all’ inizio, sta qui gran parte della questione scolastica del nuovo secolo.


Facciamo un piccolo esercizio. Non partiamo dalla Fit ma prendiamo in considerazione le classi di concorso così come sono state ridefinite dal decreto del Presidente della Repubblica n. 19 del 2016, integrato poi e corretto dal D.M. n. 259 del 2017. Concentriamoci sulla classe A-11 ex 51/A, materie letterarie e latino nei Licei e nell’ Istituto magistrale. Siamo in un punto nevralgico del funzionamento di un sistema come quello italiano, dove da sempre l’ insegnamento letterario si è venuto caricando di funzioni ideologiche di carattere generale. Ebbene, che cosa è successo su questo terreno a partire grosso modo dalla fine degli anni Novanta, nel passaggio cioè dal vecchio al nuovo ordinamento universitario?


Se consideriamo i titoli necessari per accedere a questa classe di concorso così come disciplinati a partire dal D.M. 1998 n. 39, notiamo che questi si lasciavano organizzare nel quadro di cinque ambiti accademici, quello delle lauree letterarie storico-geografiche pre e post 2001, quello delle lauree letterarie filosofico-pedagogiche, quello delle lauree pedagogiche e quello delle lauree filosofiche. Ognuna di queste cinque tipologie, richiedeva una serie di avvertenze che specificavano in maniera dettagliata gli esami necessari. Che cosa bisognava aver studiato per fare il professore di lettere nei licei? Lingua e Letteratura italiane, Lingua e Letteratura latine, due esami di Storia, Geografia. Meno scomposto era il quadro tradizionale delle vecchie facoltà di Lettere e Filosofia e minore era il numero dei vincoli posti da parte del legislatore. Erano requisiti minimi in un quadro però di rigidità dei piani di studio e in cui il modello dell’ Università un tanto al chilo era ancora di là da venire. Agiva ancora alla base del sistema un meccanismo di vincoli piuttosto costrittivo, che obbligava in maniera efficace gli studenti al percorso degli studi intrapreso tenendoli all’interno di ambienti formativi abbastanza coerenti.


Da allora questo mondo, già pieno di crepe, è andato letteralmente in frantumi. Se prendiamo il D.M. 22 del 2005 che definisce le classi di laurea specialistiche per l’accesso all’insegnamento, i titoli sono diventati ben 17 e si va dalla laurea in Antropologia culturale a quella in Metodologie informatiche per le discipline umanistiche, alle Scienze geografiche, Storiche e Storia dell’ arte. Il grimaldello di questa disarticolazione del sistema, sia universitario che della formazione dei docenti, è stato come è noto l’introduzione all’interno dell’ Università italiana di un’ unita di computo nota per il suo acronimo, CFU. Se nel vecchio modello resisteva un quadro formativo consolidato nel tempo, se volete una tradizione di studi, che doveva portare i giovani laureati in cattedra, a partire dagli anni duemila la logica è completamente cambiata. Le facoltà sono state spacchettate e allo studente, proveniente dai circuiti più disparati, è stata data la possibilità di comporre, come nel carrello di un supermercato, il proprio paniere di crediti necessario per accedere al concorso, attraverso un certo numero di esami cosiddetti soprannumerari. In questo caso, i CFU necessari sono 96, sembrano tantissimi, ma i CFU complessivi nel sistema del 3 + 2 sono trecento e dunque i requisiti per l’insegnamento di una materia decisiva come le lettere valgono meno di un terzo dell’ intero percorso universitario. Ma al di là dell’ aspetto quantitativo, cosa conta in questo cammino così impoverito? La lingua e la letteratura latina, per un totale di due annualità, la letteratura italiana (un’annualità), la linguistica italiana (idem), glottologia e linguistica (sempre un’annualità), geografia; storia greca o storia romana, bisogna scegliere ma non tutt’e due, e poi sempre a scelta o storia medievale o quella moderna o storia contemporanea.


Allora, riassumendo, per fare l’insegnante d’italiano uno studente che viene non da un percorso di lettere ma mettiamo di antropologia o di metodologie informatiche per le scienze umanistiche deve sapere la letteratura latina ma non la storia romana (se sceglie greco), la letteratura italiana ma non deve avere nessuna nozione di filologia romanza o di filologia italiana, per tacere delle letterature comparate o della letteratura italiana moderna e contemporanea (lo aveva già notato Claudio Giunta sul domenicale del Sole 24 Ore nella lontana estate del 2015); si deve infine accontentare di conoscere un pezzettino di storia nella lunga estensione temporale che va dalla caduta dell’ impero romano all’avvento di Trump.
 
Si può discutere se la Fit è meglio del Tfa ma l’una o l’altro non cambiano nemmeno di una virgola il quadro desolante rappresentato dalla demolizione alla quale abbiamo assistito in questi ultimi vent’anni di qualsiasi idea di progetto coerente di formazione culturale degli insegnanti. Di fatto in Italia si diventa insegnante di lettere nei licei comprando un po’ qua e un po’ là un altro esame all’ università come canta una canzoncina idiota di qualche estate fa.




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Adolfo Scotto Di Luzio insegna Storia della pedagogia, Storia delle istituzioni scolastiche ed educative e Letteratura per l'infanzia nell'Università di Bergamo. Si è occupato a lungo di storia del fascismo e, in particolare, della costruzione del suo apparato culturale e anche di storia delle istituzioni culturali e della scuola (con un'attenzione mai smessa per l'editoria e la stampa).
Ha pubblicato diversi volumi, tra cui ricordiamo, per il Mulino, «Il liceo classico» (1999), «La scuola degli italiani» (2007) e «Napoli dei molti tradimenti» (2008), «Senza Educazione. I rischi della scuola 2.0» (2016); per Bruno Mondadori «La scuola che vorrei» (2014).
 
 



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Numero 4 - Settembre 2018
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
Comitato di Redazione:
Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Giovanni Carosotti, Roberto Casati, Vito Carlo Castellana, Alberto Dainese, Michela Gallina, Antonio Gasperi, Marco Morini, Giorgio Quaggiotto, Adolfo Scotto di Luzio, Fabrizio Tonello, Paola Tongiorgi, Ester Trevisan