IN QUESTO NUMERO
Numero 4 - Settembre 2018
Numero 4 Settembre 2018

Perché lo studente al centro diventa un tiranno dispotico


24 Agosto 2018 | di Alberto Dainese

Perché lo studente al centro diventa un tiranno dispotico Insegno da dieci anni e sono in ruolo per concorso da quattro. Vorrei portare un modesto contributo al dibattito sulla scuola che si è intensificato in seguito ai reiterati episodi di aggressione verbale e fisica degli ultimi tempi.
Premetto che, in questo caso specifico, non credo che ci sia una particolare bolla mediatica o un effetto emulazione; se anche ci sono, penso che siano secondari. Il fenomeno è davvero in aumento.Ricordo che l’avevo previsto, appena mi sono affacciato alla professione, perché avevo constatato una situazione analoga a quella attuale italiana in altri Paesi, in particolare il Regno Unito, dove già dieci anni fa c’era tra i docenti il timore fondato e diffuso di subire aggressioni fisiche o altre forme di vessazione. Come in molti altri campi, arriviamo con qualche decennio o lustro di “ritardo” rispetto a Paesi di livello socio-economico comparabile. Nel mondo della scuola è successo e succede puntualmente con quasi tutti i grandi fenomeni pedagogici e organizzativi: tendiamo a copiare, nel bene e nel male, modelli esteri, sia pure con un certo scarto temporale. Gli esempi sono molteplici: il sistema dei moduli alla scuola primaria, la programmatica riduzione e semplificazione dei contenuti, l’adozione delle tecnologie digitali nella didattica con fede acritica come panacea taumaturgica. In ognuno di questi casi, l’Italia è arrivata dopo, ma ha percorso gli stessi passaggi che si erano compiuti altrove, anche laddove i risultati erano stati fallimentari o controproducenti e si era già proceduto a cambiare rotta.
 
Ma in virtù di quale preveggenza avevo fatto la Cassandra sul fenomeno degli attacchi anche fisici ai docenti, già dieci anni fa, dal mio osservatorio minimale di supplente e persona comune? Intuivo già allora una connessione, su cui poi nel tempo ho continuato a leggere e riflettere, tra alcuni cambiamenti paradigmatici di ampia portata nella società e nella scuola da un lato, e il comportamento delle famiglie e degli studenti nei confronti della classe insegnante dall’altro. Mi spiego meglio. La scuola, riflettendo in questo mutamenti più vasti della società, è passata – e ancora sta passando – da luogo dove si trasmettono contenuti e si acquisiscono o migliorano capacità specifiche e trasversali a luogo deputato a ogni sorta di missione e mandato, in funzione vicaria (specie in loco parentium), perdendo così di senso e ragion d’essere. Gli studenti a scuola trovano tutto e il contrario di tutto, in una girandola di proposte che, a dispetto delle buone intenzioni di chi le organizza, sono disorientanti e creano di fatto un senso di anomia. A scuola si accoglie, si sostiene, si recupera, si sperimenta, si rovescia la classe, si compensa e dispensa, si pianifica, si rendiconta, si compila, si gioca, si ride, si naviga, si coopera, si viaggia, si socializza, si motiva, si coinvolge, si comprende, si perdona. Tutto legittimo e auspicabile. Ma ogni luogo ha un suo senso e una sua funzione, e se la scuola non è il luogo dove si va per imparare, e primariamente per quello, viene meno il quadro di riferimento, la cornice che fornisce le premesse e i fini ultimi dello stare in quel posto. Se a scuola si chiede agli insegnanti di fare tutto fuorché insegnare le materie che amano e conoscono, fornendo al contempo un esempio di passione per il sapere e un modello di impegno quotidiano, e se agli studenti si propone di tutto fuorché un insieme ben presentato di contenuti disciplinari coi quali cimentarsi giorno dopo giorno perché li facciano propri, sostanza stessa del loro essere, allora non si può poi essere stupiti se si creano le crepe, nel vivere scolastico, da cui fuoriescono e si manifestano intemperanze personali, violenze e abusi più o meno gravi, forme di protagonismo e sfida di ogni tipo.


Quello che sto cercando di dire è che la scuola dovrebbe essere un luogo più coerente e compatto, in cui tutti, dal primo all’ultimo, quando varchiamo la soglia la mattina, siamo consapevoli che il motivo e il fine per cui siamo lì è insegnare e imparare, con dedizione, fatica, impegno, sbagliando e riprovando. Se invece siamo lì, noi docenti per fare assistenza sociale, sperimentazione didattica, coordinamento organizzativo, ora persino gara a chi è migliore in ottica “meritocratica” e gli studenti per passare il tempo, perderlo, inventarsi come riempirlo, è inevitabile che si aprano scenari altri e pericolosi. Insomma, a mio avviso la soluzione, a monte, sarebbe quella di (ri)mettere gradualmente lo studio e l’apprendimento al centro dell’intero percorso. Tornare, cioè, a rendere lo studio non solo la principale e pressoché unica cosa che avviene a scuola, ma anche una sorta di principio di base, di orizzonte di riferimento per tutti coloro che sono a scuola. Questo non colmerebbe magicamente il vuoto esistenziale di alcuni studenti, famiglie, gruppi sociali, ma di certo indirettamente lo ridurrebbe, perché chi è impegnato in un’attività ha meno occasioni per dare la stura a istinti e comportamenti indesiderati e antisociali. Mi viene in mente il vecchio detto “il lavoro nobilita l’uomo”; ecco, “lo studio nobilita lo studente” potrebbe essere il nuovo slogan per la scuola. Sapere che a scuola si studia, ben lungi dall’essere tautologia, sarebbe una specie di dimensione obbligata densa di senso per la quotidianità di tutti, soprattutto di coloro che – per problemi personali, tragedie familiari, disagi sociali – sono più fragili ed esposti. E lo sarebbe anche per quegli studenti – esistono! – che invece sono proprio cattivi, vuoti, indifferenti. Anche loro troverebbero minori vie di fuga lungo cui tralignare, minori occasioni per perseverare nella cattiva strada.
 
Andare a scuola per imparare sarebbe il filo rosso che tutto tiene insieme, e che previene – colla potentissima – lo sgretolamento della comunità scolastica e l’esplodere degli individualismi più virulenti e nocivi. Lo studio come ovvietà, come dato di fatto, come “macigno” cui rassegnarsi. Non imposizione o teoria, ma cosa scontata che tutti dovremmo dare per ineluttabile, come respirare per vivere o lavorare per guadagnare. E vi assicuro che, allo stato attuale, non è così. Nella scuola di oggi si possono attraversare interi cicli senza pressoché aprire libro, intere giornate senza ascoltare una sola parola dei propri docenti, interi quadrimestri senza che venga chiesto conto di comportamenti di noncuranza nei confronti di una materia o un docente. Non solo non sono più indispensabili i risultati, ma neppure l’atteggiamento giusto, proattivo all’apprendimento, è richiesto. Sì, un pochino forse sì, ma quel tanto che basta, nulla più.
 
Anche i pomeriggi dei nostri ragazzi sarebbero migliori, in una scuola dove – fondamentalmente – si studia e la cosa è data per scontata. Fare i compiti e ripetere a voce alta non sarebbero imposizioni assurde, anacronistiche pretese, o liturgie patetiche che espongono al dileggio dei pari (o anche al sorrisino saputo dei genitori più “progressisti”), ma cose ovvie e inderogabili. E le cose ovvie, che si fanno perché è così e basta, sono proprio quelle che danno un ritmo alle nostre vite e ci sottraggono a tante distrazioni e ubbie. Ricordo le belle trasmissioni di Tata Lucia, che erano molto utili a livello pedagogico; ricordo, in particolare, quel suo tono fermo con cui, di fronte alle obiezioni dei bambini, simulava impotenza e rassegnazione: “Ma è la regola; se c’è una regola c’è e basta, eh?”. Questo ­– è evidente – introduce nel quadro che ho cercato di tratteggiare un altro elemento fondamentale: è necessario, progressivamente, sostituire nella scuola al principio edonistico quello deontico (fermo restando che provare piacere nel fare ciò che si deve o è necessario fare è la cosa più bella del mondo).
Non è più proponibile operare come si è fatto negli ultimi decenni: porre lo studente e i suoi bisogni e desideri al centro (student-centred learning), strutturando la didattica e la scelta dei contenuti in modo che gli siano graditi e digeribili. Occorre rimettere al centro l’adulto (teacher-led learning) saggio e colto, il professionista deputato a insegnare la materia, che avrà l’esperienza, la cultura e il buon senso per scegliere i contenuti e le metodiche idonee non tanto a soddisfare i bisogni immediati e narcisistici dello studente, ma a creare la basi per il suo percorso futuro, per la vita e il lavoro. Una buona e sana centralità del docente è, oggi, auspicabile, dopo tanta centralità dello studente, imposta come unica possibilità da tutte le scuole di formazione per docenti e le raccomandazioni ministeriali ed europee. Se si mette lo studente al centro in modo scoperto, lo si rende tiranno; e sarà giocoforza, per l’età, un tiranno dispotico e ignorante, talora perfino violento. Se invece si mette, con naturalezza e senza atteggiamenti vessatori e oscurantisti, lo studente di fronte al semplice “fatto della vita” che a scuola si va perché “bisogna, è così”, e se gli si fa capire che deve studiare perché è suo dovere, come quello dei grandi è di faticare per lo stipendio, sarà tutto molto più semplice. Viceversa, se continuiamo a inseguire un malinteso senso di motivazione e analisi dei bisogni (needs analysis), in base ai quali o si coinvolge lo studente proponendogli quello che gli interessa e gli serve nell’immediato oppure ci si deve rassegnare a non averne l’attenzione, l’ascolto, l’impegno, credo che fenomeni come la mancanza di rispetto e le aggressioni ai docenti continueranno a crescere.
 
 
 
 


Condividi questo articolo:

Numero 4 - Settembre 2018
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
Comitato di Redazione:
Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Giovanni Carosotti, Roberto Casati, Vito Carlo Castellana, Alberto Dainese, Michela Gallina, Antonio Gasperi, Marco Morini, Giorgio Quaggiotto, Adolfo Scotto di Luzio, Fabrizio Tonello, Paola Tongiorgi, Ester Trevisan