Il concetto di competenza , pur essendo infondato, rimane il perno della Legge 107/15 e di tutte le indicazioni successive. Ne conseguono progetti lesivi della dignità degli insegnanti e per questo i docenti devono coniugare la lotta sindacale e quella didattico-culturale
24 Agosto 2018 | di Giovanni Carosotti
Il tema della «didattica per competenze», che da più di vent’anni indirizza la politica di riforma della scuola in Italia, rimane ancora oggi dirimente per stabilire la legittimità dell’intero quadro teorico alla base della Legge 107.
Conviene innanzitutto non cadere nella trappola di chi ritiene che il rifiuto del concetto di competenza comporti la difesa di un modello didattico fondato sul nozionismo e sulla passività della ricezione. Ritengo sia consapevolezza di qualsiasi docente che l’insegnamento disciplinare possiede una finalità più ampiamente formativa, ovvero quella di comunicare una conoscenza di ordine generale, tale da rendere coscienti delle diverse componenti che costituiscono la cultura umana, ciascuna delle quali porta un contributo specifico e a suo modo indispensabile al sapere nel suo complesso. Questo orizzonte formativo non ha la finalità banalmente sintetica di offrire una “cultura generale”, espressione sul cui reale significato è lecito avanzare più di un dubbio, quanto concretamente realizzare il fine autentico della scuola repubblicana, così come espresso nella Costituzione: favorire la formazione di un cittadino capace di interagire positivamente con la comunità di appartenenza, per dare il proprio contributo, eventualmente anche di carattere critico, al dibattito democratico, sulla base delle personali convinzioni e del proprio talento. Tale finalità può effettivamente realizzarsi solo se, nel corso dell’intero processo formativo, lo studente recepisce la dimensione olistica del sapere, conosce la ricchezza e la specificità dei diversi campi disciplinari, ne comprende l’interazione per il costituirsi di una visione di civiltà; nella consapevolezza del valore che la sua futura scelta specialistica assolve rispetto alla comunità dei saperi e dei talenti in cui egli è destinato a inserirsi.
Tale processo formativo si oppone evidentemente a un insegnamento fondato sul semplice nozionismo; ma in ciò esso si collega a una lunga tradizione della didattica italiana, che nella sua originalità si è sviluppata proprio da una presa di distanza consapevole dal nozionismo di origine positivista. Per cui, già ai tempi di Antonio Labriola, Pasquale Villari e Gaetano Salvemini (nome impropriamente strumentalizzato dai teorici delle competenze), il dibattito sulla scuola italiana ha sempre riflettuto su come rendere vivo lo studio delle discipline, su come esso dovesse influire sulla formazione di una personalità autonoma e capace di interagire con la comunità civile. Il fatto che esso possa essere disatteso non ne smentisce l’impianto; le contestazioni nei confronti della scuola, in passato, intendevano semmai denunciare proprio l’incapacità delle istituzioni di garantire tali obiettivi.
Ora, con buona pace di chi continua a sostenere che non è affatto vero che la didattica delle competenze si fondi su una sottovalutazione del sapere disciplinare, risulta evidente come, nella Legge 107 e in tutta la confusa letteratura precedente, del concetto di competenza si faccia un uso ideologico non solo per destrutturare il sapere fondato sulle discipline, ma per sferrare un colpo decisivo all’autonomia della professione docente e all’esercizio effettivo della “libertà d’insegnamento” sancita dalla costituzione.
La didattica per competenze, infatti, intende agire sugli stessi processi di soggettivazione, per dare origine a individualità portate a scorgere e a valorizzare esclusivamente la risultanza pratica del sapere appreso, considerato valido nel momento in cui si dimostra utile alla risoluzione di problemi specifici e settorialmente delimitati. La competenza acquista dunque statuto autonomo e, in quanto tale, essa mantiene con il sapere disciplinare una relazione esclusivamente strumentale; e, proprio per questo, essa avrebbe diritto di essere valutata autonomamente. Mi sembra che ciò corrisponda a quanto scritto dal presidente della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto (La Stampa, 19 dicembre 2017): «paradossalmente, un gruppo di insegnanti potrebbe affrontare in tutto l’anno un solo argomento, ma farlo così approfonditamente da trasmettere agli studenti un metodo di studio utile per sempre». In un’unità didattica siffatta si configurerebbe sia un impoverimento sia una gerarchizzazione –dal patente significato ideologico- tra le discipline. Quelle scientifiche verrebbero valorizzate esclusivamente sul piano di un loro riferimento pratico a un problema concreto (e su tale pericolo, peraltro incoraggiato dai criteri dei test OCSE-PISA, aveva proposto considerazioni a mio avviso insuperate il compianto Giorgio Israel), mentre il contributo di ordine storico-filosofico-letterario assumerebbe solo una dimensione contestuale, di contorno (non potrebbe essere altrimenti, mancando un’impostazione cronologicamente coerente del loro dispiegarsi), in grado di creare innocui contesti culturaleggianti, incapaci però di illustrare come un determinato approccio disciplinare concorra all’arricchimento della conoscenza.
Nel corso di più di vent’anni, in merito alle competenze sono state proposte tra le definizioni più varie e fra loro contraddittorie, tanto che Edoardo Greblo (rivista aut-aut, n°358, 2013) aveva affermato che «del concetto di competenza esistono tante definizioni quanti sono gli autori che hanno scritto sull’argomento». Sarebbe facile, a questo punto, scegliere le più imbarazzanti a supporto della propria posizione. E’ però uscito, all’inizio del presente anno, un volumetto presso la casa editrice Il Mulino, curato dalla Fondazione Agnelli, intitolato proprio Le Competenze, che, consapevole –in un raro moto di autocritica- della confusione e anche della provvisorietà di molte analisi del passato, si propone di fare il punto del concetto, per ricondurlo entro i parametri scientifici che gli spetterebbero e rilanciarlo nella sua urgenza formativa. Ebbene: se prendiamo a riferimento tale studio, riteniamo che le nostre valutazioni critiche ne escano rafforzate. Sempre nel saggio di Greblo del 2013 compariva un’altra impegnativa affermazione: ovvero che le famose otto competenze di cittadinanza stabilite dall’Unione Europea, oltre a essere diverse e, per certi versi, tra loro alternative (dal momento –aggiungiamo noi- che non se ne proponeva un legame di qualsiasi tipo, magari gerarchico e, quindi, progressivo), non facevano alcun riferimento a una definizione condivisa che potesse rappresentare per le stesse un comune denominatore. Insomma, erano indicate otto declinazioni di competenza, senza preliminarmente chiarire che cosa la competenza fosse. In un passo contenuto nel volume appena citato edito dalla Fondazione Agnelli (pag.38), a proposito di queste famose competenze europee, leggiamo: «All’assenza di un robusto impianto teorico sopperisce evidentemente l’autorevolezza dell’istituzione» [corsivo mio]. Insomma, che la competenza sia un concetto infondato, non in grado di vantare alcuna base scientifica che possa sottrarlo ai contraddittori, mi sembra ribadito anche in questo caso. E non si capisce perché le prese di posizioni contrarie di numerose personalità del mondo della cultura e della scienza –che scrivono spesso anche su Professione Docente- non debbano godere di altrettanta autorevolezza. Un ritorno evidente al principio d’autorità, fondato più su logiche di appartenenza politica che sul prestigio culturale.
Nonostante ciò i teorici delle competenze continuano imperterriti affermando l’assoluta necessità e urgenza di piegare la scuola in modo totale a questa “innovativa” pratica didattica. Il ragionamento possiamo riassumerlo nel seguente modo: poiché solo le competenze assicurano un’immediata trasformazione del sapere appreso in «pratica sociale», quindi in una pronta utilità, esse risultano assolutamente indispensabili in una fase storica di crisi occupazionale, per far uscire dal ciclo d’istruzione individui capaci di essere immediatamente operativi rispetto alle esigenze del mondo dell’impresa; alla quale dunque si concede il diritto di entrare da protagonista nella stessa organizzazione scolastica, contribuendo alla precisazione degli obiettivi, dei metodi e dei criteri di valutazione. Si scopre dunque che le «competenze di cittadinanza» non coincidono con quei valori civili precisati nel testo costituzionale, ma nella capacità del futuro lavoratore di adeguarsi e di comprendere le logiche e le esigenze del sistema economico che mira ad integrarlo, e nei confronti del quale deve valere un atteggiamento intellettuale di accettazione sistemica, e men che meno un approccio di carattere critico.
L’ignoranza, ovvero la mancanza di quella comprensione apparentemente gratuita dell’orizzonte sistemico in cui ci si colloca, diventa un valore da perseguire; di conseguenza, la gestione dei curricola assume quella finalità tecnico-pratica che il concetto di competenza incarna alla perfezione. D’altra parte, basta leggere con attenzione il recente documento intitolato Orientamenti per l’insegnamento della filosofia nella società della conoscenza per toccare con mano come tale disciplina debba diventare, nelle intenzione dei riformatori, un apparato ideologico che espelle da sé qualsiasi contraddittorio storiografico, per ridursi a legittimazione del processo conoscitivo incarnato dal problem solving (l’esatto contrario della centralità dell’interpretazione e della critica), e quindi sostanzialmente produrre teorie d’appoggio alla nuova ideologia scolastica (come dimostrano le parti del documento in cui si pretenderebbe di individuare identiche finalità tra la filosofia come disciplina e pratiche quali il CLIL e l’Alternanza Scuola Lavoro).
Il risultato di questo approccio ha evidentemente pesanti effetti –sicuramente voluti- sui docenti e sulla gestione autoritaria dell’organico. Poiché la disoccupazione è un problema urgente, l’applicazione della didattica per competenze, che aiuterebbe a sconfiggerla, diventa priorità assoluta della scuola e finisce per coincidere con la stessa deontologia professionale del docente, il quale non può più decidere se liberamente avvalersene o meno (si veda a proposito il recente documento intitolato Sviluppo professionale e qualità della formazione in servizio, dove è prevista addirittura la sottoscrizione di un patto formativo che vincoli giuridicamente l’insegnante a tali procedure). E poiché la preparazione dei docenti risulta inadeguata in vista di tali obiettivi, li si intende obbligare, attraverso corsi d’aggiornamento di pressoché totale contenuto pedagogistico, a recepire queste nuove pratiche, ad accettare come vere le fondazioni pseudo-scientifiche delle stesse, a dimostrare di metterle in partica costantemente, lasciandosi eventualmente etero dirigere, e utilizzando anche materiali e prescrizioni provenienti da esperti esterni (in qualche documento ritenuti pomposamente –ma la definizione suona anche un po’ inquietante- degli «scienziati dell’educazione»-). Un evidente azzeramento della libertà d’insegnamento.
Da questo punto di vista, se si intende respingere questo progetto lesivo della dignità degli insegnanti, questi devono coniugare la lotta sindacale e quella didattico-culturale. In sostanza: rifiutare questo immotivato ed interessato attacco alla loro professionalità; respingere nei contesti collegiali l’obbligatorietà di certe pratiche intese a introdurre in modo irreversibile questa didattica ostile al sapere disciplinare; battersi per la difesa della scuola come istituzione che conserva, rinnova e diffonde il patrimonio culturale, nella consapevolezza che solo una conoscenza complessiva dello stesso è in grado di emancipare la soggettività dell’alunno, farne una figura libera e non invece servile (come ha recentemente argomentato in merito anche Salvatore Settis).
Un obiettivo immediato dovrebbe essere quello di respingere la riforma del nuovo esame di Stato; l’intenzione sottesa a questa innovazione –non a caso invece fortemente incoraggiata nel volume della Fondazione Agnelli (pag.164)- è quella di finalizzare il percorso liceale a una verifica per competenze, rendendo quindi superfluo il lavoro di studio concentrato sulle discipline. A quel punto, una pressione sui docenti perché modifichino radicalmente il loro modo di lavorare nel senso che abbiamo indicato risulterà sicuramente più semplice.
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