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Numero 5 - Novembre 2018
Numero 5 Novembre 2018

Cambiano i colori dei governi, ma nulla cambia quando si tratta di investire risorse sulla scuola

Sarebbe importante riconoscere, da parte del Miur, che il modello dell’ autonomia è fallito e che si accogliesse la proposta della Gilda per una prima rivalutazione della professione docente. Intervista al coordinatore nazionale, Rino Di Meglio


30 Ottobre 2018 | di Ester Trevisan

Cambiano i colori dei governi, ma nulla cambia quando si tratta di investire risorse sulla scuola Parlando alla platea dei delegati provenienti da tutta Italia all’assemblea nazionale della Gilda che si è svolta lo scorso settembre a Salerno, lei non ha lesinato aspre critiche alla riforma Berlinguer. L’autonomia scolastica è, dunque, la madre di tutti i mali odierni della scuola?
La questione non è di natura ideologica e non consiste nello schierarsi a favore o contro l’autonomia. Il problema è che, come abbiamo purtroppo constatato in più occasioni, l’autonomia non ha sortito effetti positivi sul sistema scolastico italiano. Anzi, si è rivelata un’esperienza fallimentare.


Perché?
Perché si innesta su un sistema che in principio era di stampo centralista e non è stata in grado di modificarne le radici che, probabilmente, sono immodificabili. Faccio un esempio: nella scuola anglosassone l’autonomia funziona perché lì il modello centralista non è mai esistito: il sistema dell’istruzione anglosassone è gestito dalle comunità locali. Non c’è neanche la figura del dirigente scolastico come quella creata in Italia: nel Regno Unito il preside è semplicemente un insegnante anziano che dedica una parte della sua attività professionale al governo della scuola e in altri casi è semplicemente il decano, cioè il docente più anziano. In Italia, invece, si è innestato un modello di tipo aziendalista secondo cui il dirigente scolastico dovrebbe essere un manager. Ciò è, però, impossibile sia perché i dirigenti scolastici non sono formati adeguatamente, dal momento che sono semplicemente ex insegnanti, sia perché la scuola pubblica statale non si presta ad essere gestita come un’azienda. Il risultato è che è stata smantellata l’amministrazione periferica del ministero dell’Istruzione e sempre più competenze sono state scaricate sulle singole scuole il cui personale, nel frattempo, era stato ridotto e comunque non era formato per assolvere ai nuovi compiti. In queste condizioni, per il Miur diventa un problema anche bandire un concorso, perché manca il personale per espletare tutte le procedure nei tempi stabiliti. Tra le fila dell’Amministrazione, insomma, ci sono i generali ma non i quadri intermedi e le truppe.


Come si esce da questa impasse?
Bisogna ristrutturare tutto l’impianto amministrativo. Adesso finalmente saranno assunti 250 funzionari (sarebbero dovuti essere 500, ndr) per rimpolpare gli uffici di viale Trastevere e quelli periferici, ma per 30 anni gli organici sono rimasti fermi senza essere ripopolati nonostante i pensionamenti. È andato perso anche un patrimonio di conoscenze, perché è stato impossibile tramandare il know-how di 100 provveditorati agli studi a 8.500 istituti scolastici. Dal punto di vista amministrativo, dunque, si è spezzata anche la catena della conoscenza.


Quindi, secondo lei, sarebbe preferibile un ritorno al passato?
Non siamo del partito di chi crede che conservare sia meglio che innovare, ma occorre che con umiltà dal Miur si ammetta che il modello dell’autonomia è fallito e che ci si metta a tavolino per elaborare un piano di ricostruzione della macchina amministrativa, magari spendendo anche meno rispetto al passato e rendendola più funzionale.


Intravede esempi virtuosi da seguire per raggiungere questo obiettivo?
Francamente no, almeno limitando lo sguardo all’Italia. Basta pensare a quanto è successo con l’informatizzazione che dovrebbe accelerare e semplificare le procedure amministrative e invece, a conti fatti, non mi pare abbia giovato granché al nostro sistema. La spesa resta comunque elevata e siamo ancora invasi dalle scartoffie che vengono digitate al computer e poi si stampano.


Capitolo legge di Bilancio: nel Def non c’è alcuna traccia di risorse da investire per l’aumento degli stipendi dei docenti. A fine anno scadrà il contratto e non si sa quando l’Aran convocherà i sindacati per aprire le trattative per un rinnovo che si preannuncia molto povero. Un suggerimento al governo per evitare il rischio, tutt’altro che peregrino, che le retribuzioni degli insegnanti addirittura diminuiscano?
Cambiano i colori dei governi, ma nulla cambia quando si tratta di investire risorse nella scuola, come dimostra il Def che non prevede un centesimo da stanziare per il settore dell’istruzione. Al ministro Bussetti ho spiegato che i lavoratori della scuola sono i meno pagati tra i dipendenti pubblici e che questa sperequazione grida vendetta.
Nei giorni scorsi la Gilda ha lanciato la proposta di destinare i fondi stanziati dalla legge 107/2015 per il bonus merito, avversato dalla stragrande maggioranza degli insegnanti, per recuperare lo scatto di anzianità del 2013 che, mediamente, dovrebbe portare 100 euro in più nelle buste paga dei docenti. Accogliere questa proposta sarebbe un primo segnale importante di rivalutazione della professione docente.







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Numero 5 - Novembre 2018
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
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Hanno collaborato a questo numero:
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Adolfo Scotto di Luzio, Fabrizio Tonello, Ester Trevisan, Mariagrazia Zambon