Il rischio è che gli insegnanti, i docenti di scuola e i professori universitari siano messi esplicitamente al servizio non della formazione dei giovani, ma dell’ interesse veneto ad avere dei giovani formati in un certo modo e in una certa direzione.
Il paradosso italiano sta tutto qui. La lunga polemica contro il centralismo ha prodotto come esito la nascita di un centralismo più asfissiante, perché ravvicinato e occhiuto.
30 Ottobre 2018 | di Adolfo Scotto di Luzio
Il 22 ottobre 2017, si è svolto il referendum consultivo regionale del Veneto sull’ attribuzione alla Regione di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». Nello stesso giorno sono stati chiamati alle urne, su di un quesito analogo, i cittadini della Lombardia. In entrambi i casi il «sì» ha stravinto, anche se i dati dell’affluenza elettorale sono stati molto differenti, appena il 38% in Lombardia, venti punti percentuali in più in Veneto. Ad un anno di distanza, le conseguenze di quel voto hanno prodotto una proposta di disegno di legge delega, in attuazione dell’ articolo 116, terzo comma, della Costituzione, che la Regione presieduta da Luca Zaia ha inviato il 12 luglio scorso al Governo per il tramite del ministro degli Affari regionali Erika Stefani. Durante tutto quest’anno, la tabella di marcia tenuta dalla Regione è stata serratissima e il ministro Stefani, da parte sua, ha annunciato l’intenzione di voler chiudere la partita entro il prossimo 22 ottobre.
Il progetto del Veneto punta alla posta più alta. Richiede la competenza regionale su ventitré materie, che coinvolgono certo l’istruzione ma dentro un progetto molto ampio di sottrazione allo Stato dei grandi servizi pubblici nazionali, in una forma tale che da più di una parte viene giudicata eversiva del quadro costituzionale, capace di mettere in discussione il principio di eguaglianza tra i cittadini. Come ha ricordato più volte, ad esempio, Gianfranco Viesti, la richiesta esplicita avanzata dalla Regione Veneto di ottenere a proprio vantaggio molte più risorse di quanto attualmente lo Stato spende localmente, sulla base del sistema di «fabbisogni standard» (dopo il primo anno in cui si applicherebbe il criterio della spesa storica, da superarsi progressivamente nel corso del successivo quinquennio), un simile criterio, dicevo, comporterebbe gioco forza la privazione della quota corrispondente di denaro pubblico attualmente destinata ad altre regioni, e dunque ad altri cittadini italiani. Lo schema, infatti, per il quale il fabbisogno di una regione deve essere calcolato sul gettito fiscale maturato localmente, oltre che sul numero della popolazione residente e sulle caratteristiche del territorio, e in ogni caso sempre in coerenza con le dinamiche positive del Pil regionale, equivale ad enunciare, è ancora Viesti a ricordarcelo, né più né meno il principio che il più ricco merita di avere ancora di più.
È in questo quadro che a me pare vada collocata la questione scolastica, che tanto sta facendo discutere gli insegnanti, sui quali minaccia di calare la regionalizzazione del rapporto di lavoro e l’ingerenza dell’ ente locale in materia di programmazione dell’ offerta formativa. Lo spettro non riguarda solo l’ istruzione secondaria, e quella tecnico professionale in particolare, da sempre oggetto di rivendicazioni localistiche, e non senza qualche ragione bisogna pur riconoscerlo. La Regione Veneto rivendica anche voce in capitolo per l’università e la ricerca scientifica. All’ articolo 6, punto 6 del disegno di legge delega, si legge infatti che il Veneto vuole poter programmare, di intesa con le università e nel rispetto della loro autonomia, l’«attivazione di un’ offerta integrativa di percorsi universitari per favorire lo sviluppo tecnologico, economico e sociale del territorio», oltre a disciplinare «la programmazione strategica e gli interventi di sostegno in tema di ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico».
Si tratta in altri termini di costruire dentro l’Università una canale di istruzione tecnica superiore, strettamente legata agli interessi economici locali e alle corrispondenti esigenze di formazione professionale, tale da ridefinire in profondità lo stesso statuto del docente universitario, che diventerebbe in questo quadro un funzionario della programmazione territoriale regionale, con ricadute molto pesanti sui principi pur sempre fissati dalla Costituzione della libertà dell’ insegnamento e della ricerca scientifica.
Bisogna dunque cogliere la novità della proposta veneta in relazione a due grandi ambiti, da un lato, la rifondazione della nozione stessa di cittadinanza democratica, che è tale perché nutrita da un sistema di diritti e di tutele politiche di carattere universalistico; dall’ altro, la riduzione della funzione dell’ insegnamento sul terreno del conseguimento di obiettivi strategici di natura economico produttiva, localmente fissati da un’ autorità politica forte abbastanza per chiedere, ed ottenere, dai singoli docenti, più di quanto già non accada, conformismo e obbedienza. Si verrebbe così a determinare un duplice inedito registro: cittadini con un destino differente a seconda della Regione in cui hanno avuto la fortuna di nascere o di risiedere (ma a questo punto, mi chiedo, anche le regole della residenza dovrebbero essere riscritte, conferendo infatti quest’ultima un vantaggio oggettivo a chi fosse così fortunato da ottenerla); un destino differente in parte, certo, già attualmente all’ opera, anche se per il momento, diciamo così, «solo» empiricamente, mentre nel caso dell’attuazione del progetto autonomistico veneto verrebbe sanzionato per principio. E poi, gli insegnanti, i docenti di scuola e i professori universitari, messi esplicitamente al servizio non della formazione dei giovani, ma dell’ interesse veneto ad avere dei giovani formati in un certo modo e in una certa direzione.
È quello che accade immancabilmente quando il padrone cessa di essere lontano e non si limita più a dettare norme generali, ma accorcia drasticamente le distanze e pretende di dettare in maniera specifica il cosa e il come.
Il paradosso italiano sta tutto qui. La lunga polemica contro il centralismo ha prodotto come esito la nascita di un centralismo più asfissiante, perché ravvicinato e occhiuto. La vecchia Italia patriarcale riprende così il sopravvento dopo la breve parentesi di un paese che pensò di poter essere liberale e moderno.
_________________________________________________________
Adolfo Scotto Di Luzio insegna Storia della pedagogia, Storia delle istituzioni scolastiche ed educative e Letteratura per l'infanzia nell'Università di Bergamo. Si è occupato a lungo di storia del fascismo e, in particolare, della costruzione del suo apparato culturale e anche di storia delle istituzioni culturali e della scuola (con un'attenzione mai smessa per l'editoria e la stampa).
Ha pubblicato diversi volumi, tra cui ricordiamo, per il Mulino, «Il liceo classico» (1999), «La scuola degli italiani» (2007) e «Napoli dei molti tradimenti» (2008), «Senza Educazione. I rischi della scuola 2.0» (2016); per Bruno Mondadori «La scuola che vorrei» (2014).
Condividi questo articolo: