La mancanza di riconoscimento sociale e la riduzione della professione a funzione compilativa riportano ancora il dibattito intorno all’orizzonte di senso dell’ educazione. Assistiamo perciò ad una perdita di senso e forse anche ad una perdita di senno.
30 Ottobre 2018 | di Mariagrazia Zambon
La riflessione sul significato attuale della professione docente resta un punto focale del dibattito sulla qualità del nostro sistema educativo di istruzione e formazione.
Prendendo in considerazione tutto ciò che oggi accade nella scuola, balzano agli occhi situazioni decisamente inedite che richiedono nuove analisi e soluzioni idonee. Contemporaneamente però qualcosa ci riporta ad un tempo passato, alla dimensione vocazionale e missionaria dell’insegnamento e ci riconduce per analogia a quella che sembra tornare ad essere ancora una missione ma quasi impossibile, viste le difficoltà in cui versa il sistema scolastico.
Ovviamente da quel tempo molto è cambiato in termini quantitativi e qualitativi e quella docente è diventata a tutti gli effetti una professione che però, paradossalmente, ha perso nel tempo il suo valore sociale.
L’insegnamento viene percepito come un mestiere con tutti i suoi attrezzi, un mestiere che sicuramente si può imparare attraverso la formazione continua, ma che è molto di più di ciò che appare all’opinione comune, poiché mette in gioco un ampio ventaglio di competenze coinvolgendo anche aspetti relazionali, creativi ed emozionali.
Tutto ciò per dire che ci troviamo in un contesto di complessità non riducibile a considerazioni semplicistiche che va correttamente analizzato in tutte le sue componenti e nelle connessioni tra le parti.
Una tra le tante problematiche che emerge è la confusione di ruoli fra le varie agenzie educative, tra la scuola e la famiglia, con tutte le implicazioni che i fatti di cronaca mettono in evidenza: deleghe educative non esplicitate ed ingiustificate che portano nella loro ambiguità ad atteggiamenti aggressivi verbali e a volte, purtroppo, anche fisici.
Accade anche che vi sia scarsa chiarezza nei rapporti con le agenzie del territorio per le quali spesso la scuola rappresenta più un mezzo che un fine, più uno strumento che un serbatoio di progetti da promuovere.
In questa mancata definizione dei compiti la scuola resta comunque il luogo dell’apprendimento formale, luogo di educazione e istruzione che, in quanto tale, richiede una responsabilità di tipo sociale. Va richiamato a questo proposito “il principio di responsabilità” di Hans Jonas, per il quale l’etica della responsabilità è anti-individualistica e perciò, nel contempo, personale e collettiva.
Se riportiamo questo principio nella dimensione pratico-pragmatica comprendiamo come la responsabilità verso le nuove generazioni sia di tipo sostanziale e venga regolata nella sua concretizzazione da una responsabilità di tipo formale; un’unità di contenuto e forma che dovrebbe sostenere gli operatori della scuola nella realizzazione del successo formativo di ciascun studente.
Ma tra questi due aspetti si è verificata una spaccatura provocata dall’eccesso di burocrazia che quotidianamente appesantisce e avvilisce l’azione educativa.
Si è ben coscienti che una valutazione della qualità della scuola debba passare necessariamente attraverso un’analisi quantitativa per permettere la comparazione dei risultati, ma quante volte viene da chiedersi se questi valori numerici rappresentino veramente la qualità del lavoro dei docenti; è difficile liberarsi dalla sensazione che la compilazione di moduli e tabelle poco abbia a che fare con le dinamiche che sostanziano il lavoro quotidiano.
Così gli aspetti formali invece di essere uno strumento di efficacia diventano un ostacolo carico di autoreferenzialità e sfociano in quella che attualmente viene definita “burocrazia difensiva”: si tratta dell’atteggiamento di chi, di fronte alla responsabilità frammentata, rimane immobile in attesa che il cambiamento abbia fine, quando il cambiamento non è innovazione ma si blocca in una sorta di “bulimia regolatoria” (1).
È opportuno segnalare un’indagine di particolare interesse effettuata nel 2017 da FPA, società del Gruppo Digital 360, su 1700 dipendenti della PA, compresa la scuola. Secondo questa ricerca tra le principali cause della burocrazia difensiva vi sono: non capire il senso strategico del proprio lavoro, l’iperproduzione di norme e il mancato riconoscimento del valore sociale del proprio lavoro. Tra le conseguenze appaiono: la demotivazione, la confusione e l’assenza di orientamento.
La burocrazia quindi divide, mette gli operatori della scuola l’uno contro l’altro perché pone l’accento solo sulla responsabilità formale, allontanando l’attenzione verso gli elementi sostanziali, trasformando la scuola stessa in un campo di battaglia, più banalmente nella solita guerra fra poveri.
In questo modo viene meno l’aspetto motivazionale della docenza e diventa importante riportare la riflessione sul “locus of control”, sul luogo della responsabilità, per poterlo riconoscere in base al ruolo e alla funzione dei diversi operatori dentro e fuori il sistema scuola.
La mancanza di riconoscimento sociale e la riduzione della professione a funzione compilativa riportano ancora il dibattito intorno all’orizzonte di senso in cui si colloca oggi l’educazione. Se si tratta di orizzonte si tratta di prospettiva, di futuro, non possiamo abbandonarci a nostalgici ricordi; come sosteneva il sociologo Zygmunt Bauman, dobbiamo trovare nuovi criteri per leggere il presente, per ipotizzare il futuro, ma se possiamo andare verso il nuovo, facciamo in modo che sia entusiasmante, interessante, gratificante e soprattutto professionalmente dignitoso (2).
Assistiamo perciò ad una perdita di senso e, non solo per assonanza, forse anche ad una perdita di senno. Potremmo inviare Astolfo sulla luna a cercare il nostro senno, magari sulle varie ampolle troverebbe scritti molti nomi conosciuti, forse di molti politici.
Il problema però si pone con urgenza, ma come Io paghiamo Astolfo... con il bonus, con una nuova funzione strumentale...dovevamo inserirlo nel PTOF ma per una missione spaziale il suono “PTOF” non è proprio augurale. Si tratta forse ancora di “missione” poiché è lecito chiedersi se Astolfo accetterà questo incarico per il solito miserrimo compenso.
Con un po’ di ironia, ma anche con un pizzico di amarezza, vediamo allontanarsi la sostanza del nostro dire che vorrebbe concretizzarsi in progetti educativi per le bambine e i bambini, per le ragazze e i ragazzi, con le loro problematiche, con il loro giovane universo di idee e speranze per il futuro.
Non si tratta a mio avviso di nostalgico e anacronistico romanticismo ma del valore fondante della professione docente.
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(1) http://www.forumpa.it/riforma-pa/burocrazia-difensiva-come-ne-usciamo-una-ricerca-di-fpa
(2) https://www.sio-online.it/2017/08/01/password-presente-futuro-linternational-conference-alle-porte/
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