La nostra scuola ama e persegue il sapere oppure lo teme e ne rifugge? Quanti dei progetti che popolano i nostri istituti hanno a che fare con la cultura? Non intendo il senso antropologico, per cui anche un cucchiaio è cultura, ma neppure il senso più elitario. Diciamo, una ragionevole via di mezzo.
30 Ottobre 2018 | di Alberto Dainese
Mi è capitato, di recente, di dare una risposta sbagliata a un amico che mi chiedeva da dove fosse tratto un verso. Ho farfugliato una giustificazione che non ho potuto ringoiare: "Sai, lavoro in un ambiente abbrutente, capiscimi!". Una battuta e un paradosso. Eppure... come tanti paradossi, ha in sé un nucleo di verità. Possiamo forse definire le nostre scuole arche salvifiche per la cultura, come la biblioteca civica o il monastero medievale? Ho i miei dubbi. Mi pare che nelle nostre scuole la cultura sia sempre più ridotta a vecchia zia zitella rimasta a vivere con la famiglia allargata: la si tollera, nulla più.
La nostra scuola ama e persegue il sapere oppure lo teme e ne rifugge?
Quanti dei progetti che popolano i nostri istituti hanno a che fare con la cultura? Non intendo il senso antropologico, per cui anche un cucchiaio è cultura, ma neppure il senso più elitario. Diciamo, una ragionevole via di mezzo. Un circolo di lettura di romanzi russi; un ciclo di conferenze di geometria non euclidea; la lezione cattedratica di un filologo; un corso di botanica... (e quest’elenco, pur peregrino, non esclude che singoli casi contingenti esistano). Le iniziative “educative” e laboratoriali, invece, non mancano: educazione interculturale, affettiva, ambientale; laboratorio teatrale, creativo, ricreativo...
Anche nell'attività curricolare, pare che la cultura sia un anacronismo tenuto in gran sospetto, un phármakon da dosare con cautela onde evitare che il sovrappiù tramuti il balsamo in veleno e sia esiziale.
Pensiamo solo alle letture che proponiamo ai nostri ragazzi. Domina in quest’àmbito un filoneismo che si traduce persino in damnatio memoriae del nostro canone. E I promessi sposi andrebbero aboliti; e di Dante basta dare un'idea; e non si devono mai proporre “letture difficili”; e occorre guardarsi dal demone dell’enciclopedismo... Ecco che a un classico preferiamo il penultimo romanzo, che forse mai entrerà nel canone e di cui magari non resterà, da qui a qualche lustro, neppure lo sbiadito ricordo. I classici non osiamo proporli per paura che non siano capiti, che siano troppo prolissi inutili distanti. O anche per sudditanza ai troppi intellettuali che imputano alla scuola la disaffezione degli Italiani per la lettura. Nel timore di perdere per strada qualche lettore, lo allettiamo con letture facillime e però del tutto commerciali e fungibili.
Nella scuola di ieri, non avendo pregiudizi pedagogici, i nostri insegnanti ci hanno messo per le mani cose grandissime senza tema che l’alterità del tempo, della lingua, delle idee potessero esserci di nocumento. Le affinità elettive, Il nome della rosa, Controcorrente, Madame Bovary, perfino Fede e bellezza e Fosca. Per inciso, questi ultimi due titoli li ho buttati lì una volta a un capannello di colleghi a mo’ di esperimento, col risultato di attirarmi occhiatacce di sdegno quasi che avessi proferito un’eresia.
Che dire poi dei corsi di formazione che ci vengono “proposti”? Quanta parte è dedicata a qualcosa di anche vagamente culturale o solo banalmente disciplinare? È il regno assoluto della téchnÄ“, il trionfo dell’innovazione salutata con acritico entusiasmo, la ribalta del funambolismo metodologico, talora il facile sbocco per ingerenze di chi è in cerca di riconoscimenti pecuniari o titoli spendibili per avanzamenti di carriera.
In tutto questo, ciò che più m’incute timore è la latitanza financo del termine “cultura”, giacché ciò che non ha nome neppure esiste. In dieci anni di lavoro non ho mai sentito, neppure per un lapsus linguae, un solo dirigente pronunciare la parola. Pare che sia del tutto al di fuori dell’orizzonte, un termine desueto, una parola che può urtare certe sensibilità. Sarà forse perché, in ottica relativistica, i nostri dirigenti decidono di non propendere per un canone culturale specifico? Be’, ma va bene anche un cenno qualsivoglia di qualunque cosa abbia a che fare col sapere e non con le soft skills. Un corso d’arte africana, un seminario di filosofia zen, un cineforum su Miyazaki.
Perché tutta questa gnoseofobia? Perché la cultura è relegata ai margini, guardata con sospetto o sufficienza, proprio in un Paese che può vantare un patrimonio così ricco (ancorché eroso dall’incuria)? Quand’è iniziata e fin dove si spingerà la divaricazione tra scuola e cultura? E ancora, dove sono gl’intellettuali? Seclusi nella proverbiale torre eburnea o arroccati tutti su posizioni organiche alla visione dominante (che vedo applicare, peraltro, vieppiù anche all’università, benché questi siano solo i prodromi)?
È ormai opinione comune: la cultura non ha il potere formativo che secoli e secoli le hanno attribuito. Insomma, non crediamo più che il sapere sia in grado di migliorare le persone, allargandone mente e cuore, stimolando in loro pensieri e sentimenti nuovi e più complessi, per i quali proprio il sapere permette di trovare parole e definizioni più calzanti e sottili. Non pensiamo più che proprio le “educazioni” che ora cerchiamo d’inculcare negli studenti a furia di progetti, sperimentazioni, laboratori esperienziali, incontri con gli esperti, siano anche e soprattutto il portato dell’assidua, calma, meditata frequentazione con la cultura.
E allora, eccoci qui immersi nella retorica delle competenze, vera punta di diamante del fronte gnoseofobico. Ovunque si volga lo sguardo, nelle nostre scuole, è la paura d’insegnare le cose, la circospezione nel centellinare i contenuti, il senso di colpa nel pretendere che si mandi a memoria alcunché.
Ma quest’altro, gnoseofobico, approccio sta davvero sortendo gli effetti auspicati da chi lo propugna? I nostri studenti sono più capaci, più civili, più sensibili? Non saprei. Anzi, ho paura che proprio il vuoto delle parole e dei saperi concorra a produrre il vuoto esistenziale e dei sentimenti che inghiotte molti ragazzi spersi, che poi saranno adulti fragili. Con la testa vuota (à la Morin) è facile ritrovarsi con vuoto pure il cuore. Torniamo a dispensare agli studenti il sapere con fiducia: li restituiremo a sé stessi migliori, più umani, più saggi, con più parole in testa e dunque più strumenti per capire sé e gli altri. Offriremo loro, altresì, un luogo mentale e spirituale “sicuro” dai rovesci e dagli oltraggi cui tutti, in quanto umani, siamo esposti nella vita. Questo luogo dell’anima è lo ktêma es aéi che la scuola dovrebbe mediare e veicolare.
Stupisce che un’inversione di rotta sia ancora lontana. Stupisce che l’Italia, con la sua “eccentrica” tradizione di scuola accademica e seriosa (laddove la scuola pubblica estera è sempre stata di livello inferiore) si sia lasciata allontanare da sé stessa così tanto. Stupisce che s’ignori del tutto l’esempio di quei Paesi in cui la guerra alle conoscenze in favore delle competenze è stata condotta prima e più a fondo ma che ora principiano a tornare sui propri passi. Mi piace citare qui la ricercatrice D. Christodoulou, che in un saggio circostanziato, Seven Myths About Education, così conclude la propria disamina dei sette principali miti da sfatare in àmbito educativo (traduzione mia): “Se non insegniamo contenuti, gli studenti non imparano alcunché. [...] Se il nostro percorso scolastico si proponesse davvero di favorire [l’apprendimento], prevedrebbe un corpus basilare, coerente e graduale, di precisi contenuti. Viceversa, non solo non ne prevede alcuno, ma si basa sul principio che essi sono irrilevanti rispetto alle competenze.”
In Europa, e a fortiori in Italia, quella gnoseofilia che un tempo era la sostanza stessa della scuola pare ancora ben lungi dal tornare, se mai lo farà.
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