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Numero 2 - Marzo 2019
Numero 2 Marzo 2019

Le competenze: molto più insidiose di quel che si crede comunemente

Si dovrebbe cercare di tener fede in modo autentico al proclama di Lisbona, dove si affermò di voler fare dell’Europa la società della conoscenza più avanzata al mondo: l’Europa abbia la forza di ricostruire solide basi per i cittadini europei del futuro


24 Febbraio 2019 | di Alberto Dainese

Le competenze: molto più insidiose di quel che si crede comunemente Quando mi succede d’ironizzare sulle competenze, ci sono sempre colleghi che insorgono. Molti perché imbibiti delle linee-guida ministeriali. Altri per motivi nobili, ma che sono frutto di un malinteso; sostengono infatti che le competenze ci sono sempre state e che, nella loro prassi didattica, hanno sempre perseguìto il loro dispiegamento. Allora mi fermo e rifletto. Da quel che mi dicono, deduco che non si stanno riferendo alle competenze come le intendono psicopedagogisti e metodologi (posto che siano tra loro d’accordo, il che non è).
 
Purtroppo, essendo stato formato alla religione delle competenze con un lungo percorso biennale, mi sento abbastanza titolato a pronunciarmi. Qual è l’equivoco in cui incorrono quei colleghi? Quando dicono che le competenze le hanno sempre coltivate, in realtà si riferiscono alle abilità, non alle competenze. Ricordo il concitato intervento di una docente in un collegio, che s’infervorò tutta per affermare a gran voce che lei già da decenni lavorava per competenze (tradurre, riassumere...). Ecco, dall’esemplificazione si evince in modo lampante che non erano competenze ma le solite abilità che la scuola ha sempre, direi da millenni, praticato.
 
Per come le hanno spiegate a me nei lunghi anni di formazione, le competenze sono legate al “saper essere”, laddove invece le conoscenze sono un vieto “sapere” e le abilità un trito “saper fare”. Sembrerebbe quasi un salto di livello qualitativo per la scuola. Malauguratamente, invece, si tratta di grandi masse d’aria fritta; anzi, si tratta d’una teoria di una certa pericolosità, in quanto rischia di avallare un modo d’insegnare non solo inconsistente e indifferente ai contenuti, ma anche orientato all’indottrinamento.    


Che cosa significa, infatti, che l’insegnante, attraverso le competenze, deve sviluppare il savoir être? Ci sembra legittimo andare ad agire in modo deliberato e diretto sul patrimonio valoriale personale (intangibile e inalienabile) dello studente? Credo si debba invece avere un rispetto così profondo dei singoli da accettare anche il rischio pedagogico vertiginoso che alcuni allievi decidano di abbracciare idee che disapproviamo, persino di votarsi al male se lo scelgono. Può sembrare paradossale, ma credo che noi si debbano dare loro gli strumenti e i contenuti per decidere chi essere nella vita, non che si debba – come ci chiedono i sostenitori delle competenze – agire chirurgicamente sulla carne viva del tessuto morale e identitario degli studenti. Quando propongo un brano letterario mi prefiggo che ampli la loro capacità di denominare il mondo, rendendo più vasti i loro orizzonti; ma mai vorrei che – in virtù di questo – la pensassero tutti come me o come l’Italia, l’Europa, la società, l’economia vorrebbero. La libertà dev’essere totale, incomprimibile. Ciò implica qualche azzardo, è vero, ma la vita e la scuola sono anche questo: una scommessa.
 
In ogni caso, alla scuola di formazione queste cose, di fatto, ce le imponevano. Quando mi hanno illustrato come s’insegna la cultura straniera (guai a noi chiamarla ancora “civiltà”), mi hanno pressoché obbligato ­– acciocché potessi passare gli esami – non solo a non elaborare lezioni ingenue su cose superate come “la geografia degli U.S.A.” o “la rivoluzione industriale”, ma anche ad aver sempre presenti gli “obiettivi di saper-essere”. Ecco che le sole vie praticabili erano temi delicati di etica o attualità, sui quali si finiva, di fatto, per suscitare negli studenti una visione del mondo preconfezionata (multiculturalismo, relativismo, inclusione...). Orbene, non sto dicendo che questi siano obiettivi di per sé deprecabili, au contraire. Che però io debba rinunciare a tutte le conoscenze fattuali della “vecchia” civiltà per lavorare solo sul pregiudizio e sull’inclusione (peraltro col rischio di nuovi cliché e qualche forzatura) non solo è diminutio del mandato della scuola ma può persino rivelarsi controproducente. Sarà senz’altro a tutti noi familiare, per vari motivi, la tipica resistenza adolescenziale ai tentativi di far pensare in questo o quel modo, d’inculcare valori predefiniti. Facile, quindi, che questa catechesi si traduca – nemesi, o eterogenesi dei fini – proprio in atteggiamenti antisociali e discriminatòri. Meno pistolotti edificanti e più classici (Il buio oltre la siepe, Se questo è un uomo...) e – sopra ogni cosa – il quotidiano modello umano, etico, deontologico che noi rappresentiamo per loro. Per creare adulti più sensibili e consapevoli non sottoponiamo i giovani al lavaggio del cervello da Stato etico, ma lavoriamo sull’enciclopedia mentale di conoscenze e riferimenti, sulle abilità intellettuali e accademiche, e sulla capacità salvifica che la cultura ha in sé e per sé, per la sua bellezza e grandezza; dopodiché le scelte morali dei singoli potranno essere solo indirettamente il portato del nostro lavoro preliminare. E dobbiamo accettare che possa anche non andare così. Noi si semina... Ripeto: “si semina”, non “si fanno brutali innesti in vivo”.


Torniamo alle competenze. Secondo gli esperti, esse sarebbero la sussunzione di diverse conoscenze e abilità in un’entità superiore che le interconnette, difficile da quantificare e valutare ma che si estrinseca in cómpiti complessi di realtà. Ecco che alcune scuole organizzano cose davvero patetiche e francamente allarmanti spacciate per “valutazione autentica”. In una scuola dove son passato si perdeva un’intera mattinata a fare orienteering, al fine di certificare le competenze di liceali sedicenni. Mi ha molto mortificato, più che l’attività in sé, l’entusiasmo con cui molti colleghi hanno aderito. Avrei voluto gridare: “Colleghi, un po’ di dignità!”, ma poi si passa da spostàti, o peggio: da docenti non formati (ma – ahimè – io lo sono!), per cui tocca tacere.   


Ultimo punto: le competenze europee. Ora, io per la cultura europea (da Archimede a Kant etc.) ho un profondo attaccamento, e anche per l’Europa della pace e della libertà. Un po’ meno per l’Europa che in tema d’istruzione dètta linee-guida e obiettivi altisonanti ma culturalmente vacui il cui scopo reale è lo smantellamento in tutta l’Unione della scuola seria e accademica della tradizione per soppiantarla con un luogo di socializzazione, indottrinamento, omologazione, addestramento. Ad applicare le competenze europee di cittadinanza, come anche le tanto sbandierate competenze per il XXI secolo, non si possono che formare cittadini di fatto privi di salde conoscenze di base, ma in compenso flessibili, cooperanti, efficienti e propensi al consumo.  


È insomma auspicabile un ripensamento delle indicazioni che provengono dagli organi europei. Si dovrebbe cercare di tener fede in modo autentico al proclama di Lisbona, dove si affermò di voler fare dell’Europa la società della conoscenza più avanzata al mondo, giacché a questa dichiarazione d’intenti hanno fatto séguito strategie che hanno depotenziato l’istruzione formale a favore d’entità evanescenti come “apprendimento permanente” e “critical thinking”. L’Europa abbia la forza di ricostruire solide basi per i cittadini europei del futuro, ripartendo da contenuti culturali di spessore, metodi di consolidata tradizione, incardinati in scuole e università serie e impegnative, senza cedere a mode pedagogiche nemiche, nella sostanza e nelle prassi, della conoscenza e a teorie fumose o asservite al mercato (le competenze, nella fattispecie).
             
 
 
 


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Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
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Hanno collaborato a questo numero:
Roberto Casati, Rosario Cutrupia, Alberto Dainese, Domenico De Masi, Vittorio Lodolo D'Oria, Francesco Mazzoni, Marco Morini, Adolfo Scotto di Luzio, Raffaella Soldà, Fabrizio Tonello, Ester Trevisan.