La politica della Memoria nelle scuole, quindi, ha senso soltanto se riconduce fascismo e nazismo alle loro origini violente e alle loro persecuzioni contro tutte le minoranze
24 Febbraio 2019 | di Fabrizio Tonello
Se esiste un premio alla didattica innovativa spero che quest’anno sia attribuito a Diego Baroncini, un insegnante dell’istituto S. Vincenzo de’ Paoli di Ravenna, che in classe ha brutalmente mostrato ai suoi alunni cosa significhi discriminazione: “Tutti quelli che non sono di Ravenna si mettano in quell’angolo. E adesso, toglietevi le scarpe”. In breve, la classe di seconda media ha capito che l’esperimento aveva a che fare con la giornata della memoria e le leggi razziali del 1938: una simulazione mille volte più efficace di qualsiasi celebrazione ufficiale.
In realtà, quando si istituiscono i “giorni della memoria” vuol dire che la memoria è scomparsa e che non si più di cosa si sta parlando. La legge 211 che istituisce il 27 gennaio come data in cui ricordare la Shoah e le leggi razziali, è arrivata solo nel 2000, a 55 anni (due generazioni) dalla fine della seconda guerra mondiale. Troppo tardi. Oggi dobbiamo constatare che gli incontri, i concerti, i monumenti alle vittime delle violenze nazifasciste sono stati un fallimento, visto che nei confronti di migranti e zingari si ripropongono politiche arroganti e incostituzionali, senza che a nessuno venga in mente di constatare la loro somiglianza con quelle di 80 anni fa.
Il 27 gennaio si sono sentiti in tutta Italia i giusti appelli a “non dimenticare” ciò che accadde nel 1933-45, mentre quattro giorni prima, vicino a Roma, era iniziato lo sgombero all’alba di una struttura abitativa, usando l’esercito. Separazione delle famiglie. Rifiuto di comunicare dove le vittime dell’operazione vengono deportate. Tutto normale, per gli organi di propaganda del regime nell’Italia del 2019, esattamente come il “mantenimento dell’ordine” nella Germania del 1936 sembrava un necessario accompagnamento delle scintillanti esibizioni degli atleti olimpici.
Il problema non è che l’Italia di Salvini sia come la Germania di Hitler, ci mancherebbe: la questione è invece che la retorica del “male assoluto” ha nascosto le radici profonde, e la terribile normalità, della violenza contro i diversi. La persecuzione antiebraica è stato un crimine unico nelle sue dimensioni ma non nella sua organizzazione burocratica, nella sua puntigliosità persecutoria verso tutte le minoranze: il lager di Dachau fu aperto per ospitare prigionieri comunisti, seguiti da zingari e omosessuali, Auschwitz e Mauthausen vennero dopo. Oggi forse non si dice che bisognerebbe rastrellare i negri (ribattezzati “clandestini” anche quando palesemente non lo sono) e bruciarli (anche se ogni tanto qualche bello spirito lo scrive su Facebook) ma si dichiara tranquillamente ad alta voce che se annegano nel Mediterraneo, o vengono torturati dai nostri (sì, nostri) scherani in Libia, non è colpa di nessuno. Sugli zingari, esponenti del governo dicono tranquillamente che bisognerebbe “deportarli”, anche quando sono italiani.
Oggi si parla di Shoah molto più di quanto se ne parlasse negli anni Cinquanta ma, apparentemente, nessuno fa caso ad un ministro a cui piacciono un po’ troppo le divise e il linguaggio gerarca nazista. Al ritorno dai lager, i sopravvissuti non volevano parlarne, tanto meno venivano incoraggiati a farlo. Solo lentamente, nel dopoguerra, il tema entrò nel dibattito pubblico, in particolare dopo la pubblicazione del libro di Hannah Arendt La banalità del male, che non a caso fu frainteso all’epoca ed è dimenticato nel suo messaggio politico oggi. Un messaggio politico tanto semplice quanto difficile da accettare: la linea tra civiltà e barbarie, citata dal presidente Mattarella, è più sfumata di quanto ci piacerebbe credere: “Le azioni erano mostruose ma chi le fece era pressoché normale” scrisse appunto Hannah Arendt.
Quelle azioni mostruose ci appaiono oggi lontane, vicende di un’epoca incomprensibile in cui non esistevano i telefonini, Facebook, Twitter e Amazon. Al contrario, sono parte costituente della nostra vita quotidiana: nascoste dove si può (come in Cina dove si fabbricano i nostri cellulari), rivendicate quando non si può nasconderle, come al confine tra Stati Uniti e Messico, dove migliaia di bambini e ragazzi sono stati “persi” dall’amministrazione Trump dopo la separazione dalle famiglie.
La politica della Memoria nelle scuole, quindi, ha senso soltanto se riconduce fascismo e nazismo alle loro origini violente e alle loro persecuzioni contro tutte le minoranze. Se non è in grado di farlo, non solo annoia gli studenti ma, ancor peggio, distoglie l’attenzione dai crimini quotidiani commessi in nostro nome.
La semplice memoria del male non è [...] sufficiente a prevenirne il ritorno; bisogna che il richiamo del male sia sempre accompagnato da un’interpretazione e da istruzioni per l’uso. [...] Levi non si accontenta di rievocare gli orrori del passato, ma si interroga – a lungo, con pazienza – sui significati che tali orrori hanno oggi per noi; ed è proprio in questo atteggiamento verso il passato che sta la sua lezione più preziosa. Tzvetan Todorov, prefazione a I sommersi e i salvati.
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Fabrizio Tonello è è docente di Scienza politica presso l’Università di Padova, dove insegna, tra l’altro, un corso sulla politica estera americana dalle origini ad oggi. Ha insegnato alla University of Pittsburgh e ha fatto ricerca alla Columbia University, oltre che in Italia (alla SISSA di Trieste, all’Università di Bologna).
Ha scritto L’età dell’ignoranza (Bruno Mondadori, 2012), La Costituzione degli Stati Uniti (Bruno Mondadori, 2010), Il nazionalismo americano (Liviana, 2007), La politica come azione simbolica (Franco Angeli, 2003).
Da molti anni collabora alle pagine culturali del Manifesto.
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