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Numero 3 - Maggio 2019
Numero 3 Maggio 2019

La scuola delle regioni è una scuola per pochi

Compito della scuola non è formare i veneti, bensì gli italiani. Difendere la scuo-la contro la sua regionalizzazione, significa difendere i presupposti stessi dell’ identità italiana.


15 Aprile 2019 | di Adolfo Scotto di Luzio

Che fine abbia fatto il progetto di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna per un’ autonomia differenziata, quella che più opportunamente Gianfranco Viesti ha ribattezzato felicemente come la secessione dei ricchi, è difficile dirlo. Dopo il freno messo ad una iniziativa governativa che sembrava avviata come un treno al suo traguardo fino allo scorso febbraio, la macchina sta mettendosi nuovamente in moto. Per andare dove e con quali prospettive di riuscita, tuttavia, è difficile dirlo. Vale la pena invece provare a fare il punto della situazione, ricordando innanzitutto alcune circostanze che servono a chiarire i termini esatti della discussione.
 
La prima è che se oggi la Lega, nella sua componente veneto-lombarda, e alcuni settori settentrionali del Partito democratico possono immaginare un assetto tale da compromettere gravemente l’ unità nazionale, questo lo si deve esclusivamente ad una pasticciata riforma della Costituzione che di fatto ha armato la mano più oltranzista del Nord. La legge costituzionale n. 3 del 2001, varata dall’allora governo di centro sinistra (per dare copertura costituzionale ad un precedente intervento sempre dello stesso centro sinistra, alla fine degli anni Novanta, il cosiddetto Federalismo a Costituzione invariata), la legge costituzionale del 2001, dicevo,  sulla base di una discutibile interpretazione dell’ articolo quinto della Costituzione, innalzava le autonomie locali ad enti esponenziali preesistenti alla formazione della Repubblica. Se, in altri termini, l’articolo 114 pre-riforma si limitava a dichiarare che «la Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni», dopo l’entrata in vigore della nuova legge esso veniva riformulato in modo che non solo la Repubblica risultava ora «costituita» dalle autonomie locali, che dunque venivano prima (a dispetto della Repubblica una e indivisibile), ordinate ora in ordine inverso dal più prossimo al più lontano dai cittadini, prima i Comuni e poi le Regioni, ma lo Stato era parte di questa stessa enumerazione e veniva per ultimo, come l’ente più remoto, con un potere esclusivo e insieme circoscritto nell’ambito di materie esplicitamente richiamate dal comma due dell’articolo 117.
 
Al di là degli infiniti conflitti di attribuzione che la riforma per come fu attuata ha generato nel corso del tempo, questo è sicuramente un punto da sottolineare: la riduzione del ruolo dello Stato tra tanti. A partire dal 2001, lo storico particolarismo italiano, che da sempre è stato il terreno su cui hanno prevalso interessi di parte, localismo, chiusure municipali, e sul quale hanno potuto proliferare corruzione e inefficienza, ha ricevuto in questo modo un ampio sdoganamento. Pochi istituti come le Regioni italiane rappresentano oggi la sintesi perfetta dell’ irresponsabilità politica. Loro spendono, lo Stato interviene per ripianarne i debiti.
 
Se queste sono le premesse, la cosiddetta autonomia differenziata è espressione di un passo ulteriore sul terreno della forzatura del dettato costituzionale. Innanzitutto bisogna dire che l’autonomia è una questione che riguarda gli italiani, tutti, ma viene loro imposta dal pronunciamento di una quota significativa ma sicuramente minoritaria degli abitanti di una sola regione. È insomma un prezzo imposto alla nazione per volontà locale.
 
Tuttavia, se facciamo un passo ulteriore si scoprono spiriti ben più rozzi. Bisogna infatti ricordare che il quesito referendario, di un referendum consultivo va detto, sul quale nell’ottobre del 2017 furono chiamati a pronunciarsi i cittadini del Veneto era quanto restava di una batteria di domande ben più nutrita proposta da due leggi regionali del 2014, le quali, in un caso, non facevano altro che porre, in maniera pura e semplice la questione di una Repubblica veneta autonoma e sovrana e, negli altri, stabilivano un nesso esplicito tra autonomia e gettito fiscale da trattenere presso il territorio regionale, sulla base dell’ argomento apparentemente inoppugnabile che i veneti pagherebbero in termini di tasse più di quanto non ricevano sotto forma di spesa pubblica. È il tema del cosiddetto residuo fiscale. Tutti i quesiti sono stati rigettati dalla Corte Costituzionale nel 2015, tranne quello poi su cui si è svolto il referendum consultivo due anni più tardi, dove però non si faceva menzione del gettito fiscale da trattenere né, tantomeno, della sua misura. Ora è abbastanza singolare che l’intesa tra il governo e la Regione veneto scaturita da quel referendum ripristini esattamente la misura della compensazione fiscale respinta a suo tempo dalla Corte e leghi in maniera indissolubile l’autonomia rafforzata alla tematica delle risorse in più da conservare alla regione che le produce: quello che la Corte costituzionale ha gettato fuori dalla porta, rientra così dalla finestra.
 
Il residuo fiscale, dunque, che cos’è? Zaia e compagni ne hanno fatto la loro bandiera. Come ha spiegato Viesti, l’equivoco sta nel presentare la questione come se fosse una redistribuzione tra territori. Il laborioso Veneto sgobba per i meridionali fannulloni. Ma non è così. Il residuo fiscale è una misura della redistribuzione non tra territori bensì tra individui, sulla base del principio per il quale gli uguali, gli abitanti di una nazione ad esempio, i cittadini italiani, hanno il diritto ad essere trattati da uguali. Ora sarebbe interessante capire come la Lega di Salvini riesca a conciliare il prima gli italiani con prima i veneti. Ma il punto da mettere in evidenza qui è un altro. Se si accettasse il principio che i più ricchi hanno diritto ad esserlo ancora di più, a parte il fatto che bisognerebbe capire perché lo stesso trattamento non dovrebbe essere riservato dalle province più prospere del Veneto a quelle più svantaggiate se non facendo appello ad una solidarietà tra veneti che verrebbe così a prevalere rispetto a quella tra  i veneti e il resto dei cittadini della Repubblica italiana (introducendo di fatto un principio secessionista semplicemente inaccettabile), a parte questo voglio dire, l’autonomia rafforzata si risolverebbe nella fissazione di principio di un legame effettivo tra residenza e accesso privilegiato a diritti di cittadinanza che viola qualsiasi criterio di equità. Per non dire della circostanza che se essere veneti comporta una così potente discriminazione positiva a loro vantaggio, il cambio di residenza in Italia diventerebbe semplicemente un affare di stato e non più un mero atto amministrativo quale è oggi.
 
La scuola infine. Una lunga tradizione ha biasimato il cosiddetto centralismo del ministero della Pubblica istruzione. Ma per quale ragione il centralismo dell’ assessorato regionale all’ istruzione e formazione dovrebbe essere meno soffocante? Resta poi la questione più importante. Compito della scuola non è formare i veneti, bensì gli italiani. La scuola è uno degli ultimi territori in cui i cittadini della Repubblica fanno esperienza di ciò che hanno in comune. Difendere la scuola contro la sua regionalizzazione, significa difendere i presupposti stessi dell’ identità italiana.
 
 
 


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Numero 3 - Maggio 2019
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Massimo Ammaniti, Giuseppe Boccuto, Giovanni Carosotti, Vito Carlo Castellana, Roberto Casati, Annalisa Corradi, Rosario Cutrupia, Alberto Dainese, Teresa Del Prete, Danilo Falsoni, Marco Morini, Francesco Pallante, Adolfo Scotto di Luzio, Ester Trevisan, Gianfranco Viesti, Massimo Villone.