Siamo italiani perché condividiamo una storia, un’arte, una cultura. La scuola regionalizzata mina alla radice questo fondamento, in tal modo mettendo a repentaglio non soltanto l’unità territoriale dello Stato, ma la stessa tenuta della collettività nazionale.
15 Aprile 2019 | di Francesco Pallante
Rivolgendosi, nel 1950, a una platea di insegnanti, Piero Calamandrei definì la scuola un «organo costituzionale», al pari delle Camere del Parlamento o della Presidenza della Repubblica. Assumendo un punto di osservazione parzialmente diverso, Costantino Mortati ne parlava come di una «formazione sociale», alla stregua della famiglia o del sindacato, e aggiungeva di considerare l’istruzione un «diritto civico». In entrambi i casi, l’idea retrostante era che la scuola fosse il necessario complemento del suffragio universale: la democrazia non poteva accontentarsi di aver formalmente riconosciuto a tutti il diritto di partecipare alle decisioni politiche collettive, ma doveva preoccuparsi che tutti fossero sostanzialmente messi nelle condizioni di poter prendere parte politica con consapevolezza. Di qui, la contestuale configurazione dell’istruzione come diritto e dovere, in analogia – non a caso – con il voto e il lavoro: nel patto costituente, la libertà dal bisogno e dall’ignoranza sono erette a precondizioni dell’effettiva libertà politica.
In questa prospettiva, funzione costituzionale della scuola – in senso ampio intesa: dalla primaria all’università – è formare cittadini. Vale a dire, individui che si pongano come soggetti attivi dell’esistenza collettiva, consapevoli della propria posizione nel mondo, delle proprie esigenze e delle proprie potenzialità, capaci di leggere il contesto in cui agiscono, disposti a battersi per le proprie idee ma consapevoli della necessità di ricomporle democraticamente in soluzioni compromissorie rivolte all’individuazione – quantomeno tentata – dell’interesse generale. Inutile dire quanto le riforme degli ultimi trent’anni abbiano allontanato l’istruzione da questo modello ideale, assoggettandola a esigenze e priorità di ordine non già politico, ma economico, sino al punto di forgiare una neolingua fatta di crediti e debiti, offerta formativa, piani-carriera, ... La berlusconiana scuola delle tre “I” – impresa, informatica, inglese – cosi come la renziana alternanza scuola-lavoro rappresentano i coerenti esiti di tale trasfigurazione: una scuola che ha abbandonato la sua matrice civica e si è convertita alla produzione di lavoratori ben disciplinati, sostituendo, come interlocutore, alla società la moltitudine indistinta dei singoli individui.
C’è da stupirsi, alla luce di tutto questo, che i dati sull’insegnamento pubblico, scolastico e universitario, fotografino un Paese che investe risorse insufficienti e ottiene risultati sempre più modesti?
Con il 3,9% del Pil dedicato all’istruzione nel 2016 (ultimo dato disponibile), l’Italia si colloca molto al di sotto della media europea (che è al 4,7%), facendo meglio solo di Bulgaria, Romania, Irlanda e Slovacchia. Rispetto al 2011 – l’anno dei famigerati tagli del governo Berlusconi – la scuola è sottofinanziata di 8 miliardi, l’università di 1,1 miliardi. Ciò ha avuto ripercussioni negative sull’edilizia scolastica, sul numero dei docenti, sulle borse di studio, sulle tasse sull’istruzione, sulle immatricolazioni alle università. I risultati vengono di conseguenza: quasi il 40% degli italiani di età compresa tra i 25 e i 64 anni ha conseguito soltanto la licenza media, la percentuale di laureati tra i 30 e i 34 anni è tra le più basse d’Europa, il tasso di abbandono scolastico è superiore alla media continentale, l’analfabetismo funzionale colpisce un quindicenne su quattro per le competenze matematiche e uno su cinque con riguardo alla lingua italiana. Il dato che forse più colpisce è quello relativo ai ragazzi tra i 15 e i 29 anni che risultano totalmente inattivi (non studiano, non lavorano, non sono inseriti in percorsi formativi di alcun genere): sono addirittura il 24,1%, quasi uno su quattro, il dato peggiore d’Europa (dove la media si attesta al 13,4%). Di converso, chi riesce negli studi è sempre più frequentemente costretto ad andare a lavorare all’estero: è stato calcolato che attualmente risieda fuori dall’Italia il 18% di coloro che hanno conseguito un dottorato di ricerca nel nostro Paese.
In questo quadro, complicato dalle crescenti differenze territoriali tra Nord e Sud, il regionalismo differenziato si inserisce come elemento di ulteriore allontanamento dal disegno costituzionale. Dalle bozze di intesa che circolano informalmente, si ricava che, sia pure con intensità differente, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna aspirano a separarsi dal sistema di istruzione nazionale per dar vita a sistemi scolastici regionali ampiamente autonomi. La principale differenza tra Veneto e Lombardia, da una parte, ed Emilia Romagna, dall’altra, è che mentre quest’ultima punta essenzialmente ad acquisire il controllo organizzativo della rete scolastica e del fabbisogno del personale docente, le altre due regioni si propongono di ottenere il pieno controllo delle finalità stesse del sistema d’istruzione, al fine di poterlo calibrare sulle esigenze del contesto socio-economico regionale. A tal fine non si accontentano – come fa l’Emilia Romagna – di prevedere assunzioni integrative per sopperire alla contrazione degli insegnanti statali, ma richiedono l’istituzione di ruoli regionali per il personale dirigenziale, docente, amministrativo, tecnico e ausiliario – con piena libertà concorsuale – e la regionalizzazione delle funzioni, delle strutture e del personale oggi in servizio presso l’Ufficio scolastico regionale del Miur. Dal punto di vista contenutistico, ad accomunare le tre regioni è il compiuto asservimento della scuola e dell’università alle esigenze della produzione economica: l’alternanza scuola-lavoro è rafforzata dalla programmazione di percorsi di apprendistato, l’organizzazione dell’istruzione tecnica è anch’essa acquisita al controllo regionale, formazione professionale e istruzione sono congiunte in un proposta formativa complessiva, la didattica universitaria è integrata da nuovi corsi rivolti a favorire – nell’ordine – lo sviluppo tecnologico, economico e sociale del territorio. A sostegno di tali propositi, è prevista l’istituzione di appositi fondi per assicurare alle tre regioni di poter fare affidamento su risorse certe e ulteriori rispetto a quelle attualmente disponibili.
Siamo davvero al cospetto di un tentativo separatista. Quel che viene dimenticato è che nessuna collettività politica può reggersi esclusivamente su scelte di interesse volontarie. A tenere insieme i gruppi umani contribuiscono numerosi altri elementi, tra i quali un ruolo fondamentale è senz’altro esercitato dalla condivisione di un orizzonte culturale comune. Nella Costituzione si parla di «Nazione» in tre occasioni: tra queste, come sottolinea Tomaso Montanari, spicca l’art. 9, che inserisce tra i principi fondamentali dell’ordinamento italiano la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Come a dire che siamo italiani non per il sangue che ci scorre nelle vene né, di per sé, per la terra su cui siamo nati, ma perché condividiamo una storia, un’arte, una cultura. La scuola regionalizzata mina alla radice questo fondamento, in tal modo mettendo a repentaglio non soltanto l’unità territoriale dello Stato, ma la stessa tenuta della collettività nazionale.
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Francesco Pallante è professore associato di Diritto costituzionale nell’Università di Torino. Si interessa di fondamento di validità delle Costituzioni, processi costituenti, interpretazione del diritto, diritto non scritto, rapporto tra diritti sociali e vincoli finanziari, diritto regionale. Oltre ad articoli scientifici su questi temi, ha pubblicato: Francesco Pallante, Il neoistituzionalismo nel pensiero giuridico contemporaneo (Jovene 2008); Gustavo Zagrebelsky, Valeria Marcenò, Francesco Pallante, Lineamenti di Diritto costituzionale (Le Monnier 2014); Gustavo Zagrebelsky e Francesco Pallante, Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali (Laterza 2016). Scrive per il Manifesto ed è membro del Consiglio di Direzione di Libertà e Giustizia.
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