Inghiottita in tre vortici concentrici, la scuola italiana si salva ancora grazie alla concretezza operativa del singolo docente quando si instaura un rapporto costruttivo con il discente
15 Aprile 2019 | di Danilo Falsoni
Una lettera aperta al Governo e al Parlamento, firmata da 600 docenti universitari, sulla grave ignoranza della lingua italiana diffusa fra i giovani[1] – completamente ignorata dalla politica ufficiale – costituì due anni or sono un grido di allarme particolarmente inquietante per la cultura e per il futuro della società civile e della democrazia in questo paese, in cui la scuola sembra essere stata gradualmente inghiottita, negli ultimi decenni, in un abisso articolato in tre vortici concentrici, per la sciagurata combinazione di vari fattori quali incompetenza, malafede di interessi economici “forti”, ignoranza ed arroganza culturale.
1. In primo luogo, l’idea balzana, ormai da chiunque considerata logica grazie alla sua grottesca ripetizione da parte dei media e degli operatori scolastici, della cosiddetta “scuola-azienda”. Essa consiste nell’identificare l’istituzione a cui è delegata l’istruzione e la formazione, sia culturale che professionale, dei giovani, con un qualsiasi complesso aziendale erogatore di servizi, alla stregua delle imprese fornitrici di gas, luce, acqua, operanti secondo logiche concorrenziali di efficienza e profitto d’impresa.
E’ una logica che potrebbe avere senso per gli aspetti funzionali amministrativi della scuola (l’efficienza della segreteria, la pulizia, il funzionamento dei mezzi tecnici, l’organizzazione del personale), ma non lo ha affatto per la funzione fondamentale che essa svolge, e cioè quello della istruzione-formazione.
In questa ottica, infatti, lo studente diviene un semplice “utente” (sic) che paga un servizio che, conseguentemente, dovrebbe essergli erogato operando nei modi più efficienti e competitivi: proprio come un’impresa che si rispetti! Così, il diritto allo studio si trasforma conseguentemente in diritto al successo scolastico: chi paga, infatti, ha diritto al servizio. Peccato che questo sofisma non tenga conto del fatto inoppugnabile da chiunque che il discente, nel senso etimologico del termine, non è e non può essere un soggetto passivo e meramente recettivo come il termine “utente” lascia intendere, cioè un semplice fruitore e percettore di un servizio, ma un soggetto attivamente partecipe al processo conoscitivo.
Errore da cui discende anche l’ipergarantismo giuridico: se lo studente è un normale utente, va tutelato giuridicamente come tale e le scuole si riducono a “imprese”, in una paradossale gara concorrenziale per offrire migliori “servizi” sotto forma di “offerte formative”, come si fosse in un supermarket del sapere, dove le conoscenze sono semplici merci acquistabili e da reclamizzare.
2. Un’altra idea inquietante in cui la scuola italiana è stata risucchiata, come in un Maelström di superficialità, è quella secondo la quale le “conoscenze” sarebbero inutili o comunque di secondaria importanza, ma ciò che conta sia l’apprendimento di “competenze”: chi opera nel mondo della scuola ha cognizione di tali termini, anche se il secondo, nella frequenza distratta e consunta dell’uso, mantiene un alone di fumosa ambiguità. Una tale idea appare ad alcuni giustificabile con il fatto di vivere in un’era in cui l’accessibilità ai dati conoscitivi è enormemente accresciuta dai mezzi tecnologici come la rete, sì che il loro apprendimento diverrebbe, pertanto, quasi inutile sforzo mnemonico, perdita di tempo in un’epoca dominata dall’impellenza concorrenziale che ha fatto della velocità il suo modello.
Perciò, a che pro perdere tempo ad acquisire dati e nozioni, a leggere testi integrali o ampie parti di classici? Così nelle scuole si è sviluppata una vera e propria didattica del “piluccare” qua e là, saltabeccando di pagina in pagina con superficialità senza nulla approfondire: del resto, nella società del dilettantismo e della chiacchiera demagogica, della competizione illimitata, a che servono serietà e conoscenze approfondite? E i giovani, depauperati della lettura, privi di strumenti lessicali essenziali, diventano analfabeti dei sentimenti e delle passioni, incapaci di riconoscerli nel proprio vissuto, rielaborarli coscientemente ed esprimerli in modo adeguato.[2]
3. Ultima e più recente voragine in cui la scuola sta precipitando, è l’idea che essa debba essere al servizio esclusivo dell’azienda, cioè delle richieste ed esigenze immediatamente contingenti provenienti dal mondo imprenditoriale e del lavoro, in una visione grettamente aziendalistico-economicistica dell’istruzione.
La scuola, cioè, cesserebbe di essere istituzione formatrice, umanisticamente intesa come luogo in cui diffondere e sviluppare conoscenze criticamente fondate e capacità di rielaborazione personale delle informazioni, per allinearsi esclusivamente a richieste dettate dalle aziende locali, dal “territorio” come s’usa dire, finalizzandosi a un addestramento puramente operativo secondo una logica esclusivamente utilitaristica, limitata e priva di aperture a orizzonti più ampi, come l’economia globalizzata richiederebbe. E’ chiaro che se uno degli scopi dell’istruzione è quello di preparare i giovani alle professioni, fornendo loro conoscenze e competenze funzionali alle esigenze economiche del momento, è da rilevare, però, che questo è strettamente connesso all’obiettivo culturale di formarli come cittadini consapevoli e dotati di capacità critica: ruolo determinante anche nella formazione professionale in un mondo in continua evoluzione, che richiede ampiezza di vedute, elasticità mentale e capacità di valutazioni su vasta scala; si veda il bel saggio di Martha Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, Bologna 2014.
Certamente nella scuola italiana esistono anche lati costruttivi, elementi che fino ad ora l’hanno salvaguardata dalle vacuità di quella americana, ma la sua salvezza risiede soprattutto in quella peculiarità che va oltre le situazioni contingenti delle specifiche istituzioni scolastiche: ed è la concretezza operativa del singolo docente là dove si instaura un rapporto costruttivo con il discente, legame diretto ed empatico, essenza più profonda ed efficace di ogni azione pedagogica, e che rimane ineliminabile anche in epoche di altissimo incremento tecnologico. E’ un rapporto che, fortunatamente, va al di là di tutti gli ostacoli burocratici che una legislazione borbonica e formalistica impone, permettendo di recuperare quel valore maieutico proprio dell’azione pedagogica nel suo versante creativo, che stimola la ricerca e l’evoluzione sia da parte dello studente che del docente.
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[1] Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità, Contro il declino dell’Italiano a scuola – Lettera aperta di 600 docenti universitari. 4-02-2017, http://gruppodifirenze.blogspot.com
[2] U. GALIMBERTI, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007. IDEM, La lampada di Psiche, Casagrande, Bellinzona 2004.
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