IN QUESTO NUMERO
Numero 3 - Maggio 2019
Numero 3 Maggio 2019

Il Nuovo esame di Stato, specchio di una scuola senza contenuti

Che la riforma dell’esame di Stato avrebbe costituito la mossa definitiva (e forse vincente) per obbligare la scuola a pratiche d’insegnamento mai accettate da una grande maggioranza dei docenti, in modo da piegarne la resistenza, era più che prevedibile ma vi è ancora ancora uno spazio di resistenza per gli insegnanti, per affermare il loro giusto protagonismo


15 Aprile 2019 | di Giovanni Carosotti

Il Nuovo esame di Stato, specchio di una scuola senza contenuti Tra le diverse opinioni relative al corretto modo di relazionarsi al processo (pseudo) riformatore che ha investito la scuola negli ultimi decenni, una delle più convincenti è quella di chi ritiene non si possano più separare tra di loro le problematiche di ordine sindacale da quelle relative alla didattica. Opportunità non sempre colta a pieno sia dai vertici sindacali (che in alcuni casi hanno dimostrato scarsa sensibilità verso i mutamenti negativi che hanno coinvolto in questi anni nel quotidiano la vita degli insegnanti), sia spesso anche dai colleghi. Eppure l’idea di tenere separati i due ambiti è stata in modo evidente perseguita da chi le riforme le ha concepite, e in particolare da chi ha promosso l’approvazione della Legge 107; si accettava l’idea che le relazioni sindacali si concentrassero sulla questione dei compensi (come eventualmente retribuire l’aumentato carico di attività legato all’Alternanza scuola-lavoro o alla compilazione di inutili moduli burocratici, a partire dagli UDA), prescindendo dal contenuto specifico di queste innovazioni, che implicano un radicale mutamento della professionalità docente, rispetto alla quale riconfigurare i diritti degli insegnanti e la gerarchia interna alle scuole. La «didattica per competenze», prevedendo uno stravolgimento della professione docente non più riferita alla preparazione didattico-disciplinare, impone agli insegnanti continue attività formative finalizzate a trasformare la metodologia d’insegnamento secondo principi aleatori che, come dimostra il dibattito in corso da decenni, non presentano alcuna legittimità scientifica tale da giustificarne l’adozione coatta.
Alla luce di tale problematica vanno discusse le nuove modalità all’esame di Stato per le superiori. Nell’Appello per la Scuola pubblica del 2017, tra le richieste compariva anche quella di una moratoria in merito alle modifiche dell’esame di stato, nella consapevolezza che si volesse agire sullo stesso per obbligare i docenti a mutare radicalmente la loro metodologia didattica.
Non si pretendeva di difendere l’esistente, bensì di porre le basi per un confronto franco su come eventualmente innovare la scuola e la didattica, che avesse come protagonisti finalmente i docenti. Un dato sembra incontestabile: il «governo del cambiamento», per quanto riguarda la scuola, ha agito in perfetta continuità con lo spirto della Legge 107, in particolare su ciò che per essa era essenziale, ovvero l’imposizione ai docenti della «didattica per competenze». Poco tempo prima la pubblicazione delle modalità del colloquio, l’Associazione Nazionale Presidi aveva auspicato il passaggio da una didattica fondata sui programmi ad un’altra fondata sugli argomenti, riprendendo un’idea già della Fondazione Agnelli. Risulta significativo che l’esecutivo abbia tenuto conto di questa indicazione, riprendendo il testo che già era del precedente governo, evitando accuratamente di coinvolgere gli insegnanti, e non abbia contraddetto le trionfanti dichiarazioni sia dell’ANP sia di altri autorevoli sostenitori della Buona scuola, che si riconoscevano totalmente nelle procedure del nuovo esame, proprio perché esse avrebbero obbligato i docenti a mutare la loro impostazione didattica dal prossimo anno scolastico.
Se l’innovazione didattica viene dunque concepita come pretesto per sottrarre diritti e mettere in discussione di fatto la libertà d’insegnamento; se tale obiettivo viene addirittura rivendicato con arroganza dagli stessi sostenitori della Buona Scuola, allora la discussione sul nuovo esame di stato non può limitarsi a un’analisi caso per caso sulla maggiore o minore felicità delle diverse modalità di prova, come se si trattasse di una questione tecnica. Ma deve tenere presente l’intenzione complessiva del legislatore e trasformarsi in una battaglia di ordine sindacale. Due forse sono le possibili strategie di azione: l’una riguarda l’esame in sé, rispetto al quale il Consiglio di classe non deve rinunciare a valorizzare le modalità di lavoro e i contenuti che con decisione libera ha deciso di seguire per uno specifico gruppo classe nel corso degli anni. Tali contenuti e modalità di lavoro vanno con coerenza e convinzione sostenuti nel «Documento finale», al quale in ogni caso la Commissione esaminatrice e i Presidenti sono tenuti ad attenersi.
Successivamente, a partire dal prossimo anno scolastico, i Collegi dei Docenti devono rigettare il principio, che sarà sicuramente sostenuto come un obbligo da diversi Dirigenti Scolastici, di trasformare radicalmente, in virtù proprio delle nuove modalità dell’esame, la propria programmazione, sacrificando i più ampi contenuti disciplinari, a favore di non condivisi e spesso generici percorsi pluridisciplinari.  L’eventuale riferimento di parti diverse dei programmi svolti a macro argomenti di ordine generale potrà essere affrontata, in un lavoro di sintesi conclusiva, a conclusione dell’ultimo anno di corso, senza intaccare la decisione di chi intende proseguire una modalità d’insegnamento che rispetta maggiormente la specificità metodologica della propria disciplina. Il nuovo esame non obbliga necessariamente a compilare UDA, a dedicarsi esclusivamente a “compiti di realtà”, e non è necessario sottoporsi a tali modalità di lavoro se non condivise. Il modo in cui ciascun insegnante decide di concretizzare la propria azione didattica –e qui l’aspetto più tipicamente sindacale emerge in tutta la sua urgenza- non può diventare pretesto per un differente giudizio di valore sulla capacità degli stessi. Non si può accettare una valutazione falsamente meritocratica che non possiede in realtà alcun fondamento oggettivo, se non l’arroganza di chi si ostina a non voler riconoscere che le proprie teorie in merito alla comunicazione didattica, imposte in modo arrogante dalla recente normativa, non costituiscono affatto un punto d’approdo definitivo della ricerca pedagogica.
Che la riforma dell’esame di Stato avrebbe costituito la mossa definitiva (e forse vincente) per obbligare la scuola a pratiche d’insegnamento mai accettate da una grande maggioranza dei docenti, in modo da piegarne la resistenza, era più che prevedibile. Non avere esercitato una pressione preventiva –in particolare presso il nuovo esecutivo- affinché tale processo non avvenisse è sicuramente stato un errore. Ma poiché tale decreto –grazie anche alla fretta con cui è stato voluto imporre- rappresenta un dispositivo coercitivo che presenta ancora diverse falle e contraddizioni interne, si apre ancora uno spazio di resistenza per gli insegnanti, per affermare il loro giusto protagonismo in merito a come condurre la relazione educativa, e fornire un decisivo contributo per salvare la società italiana nel suo complesso da un modello d’istruzione che rischia di produrre una processo sempre più diffuso di deculturizzazione.
Conviene per il futuro non lasciarsi più sorprendere. E chiedere già ora garanzie al nuovo governo in merito alla riscrittura del Testo unico resa possibile dalle deleghe previste dalla Legge 107. E non permettere, come sarebbe in totale continuità con lo spirito di quella legge, che si svuotino le procedure democratiche che ancora garantiscono autonomia agli organi collegiali.
 
______________________________
* L’ autore è stato, insieme con altri, il promotore dell’ Appello per la scuola pubblica che ha raccolto migliaia di firme.
 


Condividi questo articolo:

Numero 3 - Maggio 2019
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
Comitato di Redazione:
Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Massimo Ammaniti, Giuseppe Boccuto, Giovanni Carosotti, Vito Carlo Castellana, Roberto Casati, Annalisa Corradi, Rosario Cutrupia, Alberto Dainese, Teresa Del Prete, Danilo Falsoni, Marco Morini, Francesco Pallante, Adolfo Scotto di Luzio, Ester Trevisan, Gianfranco Viesti, Massimo Villone.