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Numero 3 - Maggio 2019
Numero 3 Maggio 2019

Dell’utilità dell’inutile, ovvero dell’aver buttato il bimbo con l’acqua sporca

Quell’istruzione di qualità, quella tradizione pedagogica fatta di serietà e rigore, che ha avuto la sua ultima, epigonale fioritura negli anni intorno al 2000, ostinatamente l’abbiamo voluta distruggere. E’ triste un Paese che ha bisogno di màrtiri ed eroi, o che – avendoli – li chiama pazzi, illusi, retrogradi (o “docenti non formati”)!


15 Aprile 2019 | di Alberto Dainese

Dell’utilità dell’inutile, ovvero dell’aver buttato il bimbo con l’acqua sporca Vorrei condividere (rispolverare?) con voi, exempli gratia, un elenco, non esaustivo, di cose assolutamente inutili in termini di applicabilità pratica in qualsivoglia àmbito del lavoro o della vita quotidiana, cui gl’insegnanti che ho avuto, dalle elementari alle superiori, mi – e ci – hanno sottoposto. Anzi, oltre che inutili (a maggior ragione ora che, come scrive D. Christodoulou, la gente pensa – sbagliando! – che you can always just look it up) sono anche tutte cose che verrebbero definite demotivanti, in quanto remote dal mondo di bambini e ragazzi, e pertanto del tutto inidonee a esser loro propinate. Qualcuno le propina ancora comunque: bravi! Ma quanto occorre lottare e giustificarsi con dirigenti, genitori, opinione pubblica!
         
Mi astengo dal formulare grandi teorie e prolissi discorsi, mi limito a dire che – ovviamente – la loro utilità queste cose ce l’hanno avuta, sia pure in termini diversi da quelli riduzionistici della scuola e società attuali, ossia in termini di ricadute cognitive e di costruzione del carattere. Anche a livello di motivazione hanno esercitato il loro potentissimo effetto, nel senso che hanno motivato – magari non tutti, ma molti di noi sì – ad amare il sapere in quanto tale, di per sé. È questa infatti l’unica e sola motivazione possibile atta a sostenere lo studio, anche accademico e professionale, di cose difficili astratte lontane, che divengono importanti e significative in sé e per sé, in quanto cimenti intellettuali. In effetti, che cosa ci può essere di motivante nel paradosso di Schrödinger, nel triangolo di Tartaglia, nell’aoristo cappatico, nel ciclo di Calvin, nella regola di Reusch... se non il fatto che diventano affascinanti di per sé, per la loro intrinseca coerenza e bellezza? Inseguire, come oggi vogliono che facciamo, una motivazione intesa come proposta di cose attuali – o attualizzabili o futuribili – e accattivanti in termini multimedial-mirabolanti significa giocoforza appiattire, depauperare, annichilire l’intero corpus del sapere per tramutarlo in un vacuo balocco che intrattiene ma non istruisce né educa né forma.
 
Ma bando alle divagazioni. Ecco l’elenco; trascelgo in modo ondivago e umorale ma del tutto veridico.
         
Scuola elementare (anni Ottanta-Novanta del Novecento, prego notare!):
la catafora stilistica; l’episodio di Cecilia nei Promessi Sposi; tutta una serie di soporiferi sceneggiati e documentari RAI; la ricerca delle parole difficili nella prima pagina dei Promessi Sposi; poesie sentimentali, tardoromantiche, edificanti, o di spirito risorgimentale, a memoria; tutto Il cinque maggio a memoria; Fratelli d’Italia cantato con la mano sul cuore; l’agiografia di molti personaggi della storia d’Italia; lettura integrale di Pinocchio (nei ritagli di tempo); costruzione con compasso e squadrette dei poligoni regolari, compresi quelli “strani” come l’ettagono e l’ennagono; interrogazioni su tutti i tempi e modi dei verbi; l’enunciato delle proprietà delle operazioni a memoria; numerazioni per pagine e pagine e pagine da un numero X a un numero Y (in avanti o all’indietro) a salti di 8, 9 o 12; gli affluenti di destra e sinistra del Po; tutte le province delle singole regioni italiane; le espressioni con le graffe e le potenze...
         
Scuola media di provincia (anni Novanta):
estrazione delle radici quadrate a mano; le operazioni in sistema sessagesimale; i problemi del tre composto; tutto l’alfabeto greco minuscolo (per nominare gli angoli e “per quando farete fisica alla superiori”, disse la prof. di matematica, un po’ sibillina); la formula della fotosintesi; i nomi astrusi dei tessuti vegetali e animali (meristematico, tegumentario etc.); il proemio di Iliade e Odissea a memoria (nelle classiche traduzioni di Monti e Pindemonte); parafrasi, commento, memorizzazione d’innumerevoli poesie (Pascoli, Foscolo, Petrarca, Leopardi...); le basi del latino (corso opzionale, ahimè, con un austero Tantucci); il funzionamento di ADP e ATP (con la prof. di ginnastica!)...
 
Liceo del centro (fine anni Novanta):
scansione e lettura metrica dell’esametro; la poesia dialettale di Porta e Belli; i poeti minori del Romanticismo; la querelle marinisti-antimarinisti; lettura integrale e traduzione di The Taming of the Shrew, al secondo (!) anno; traduzione dall’italiano al latino (già eliminata per legge da tempo, ma la prof. ancora si chiedeva “non capisco perché” e procedeva per la sua strada: la nostra), mentre mancava all’appello quella dal greco al latino, purtroppo: di quella è stata deprivata (“diseredata” direbbe Bellamy) già la mia generazione; lettura estiva d’una ventina di titoli obbligatori alla volta (Goethe, Kafka, Eco, Tasso, Alfieri, Huysmans... mica bagattelle); consigli di letture facoltative del calibro di The Golden Bough di Frazer o  Paideia di Jäger (“se non li leggete adesso, quando pensate mai che avrete il tempo?”; ed era vero); interrogazioni di geografia sul “muto” (per chi non avesse vissuto l’ebbrezza, trattasi di cartine prive di nomi su cui sono segnati solo confini, corpi idrici, pallini e quadratini per le città)...
 
Un bilancio potrebbe essere: tanto vecchiume postunitario, tanta difficoltà fine a sé stessa, tanto snobismo elitario. E tuttavia, il privilegio di quest’istruzione ardua e accademica era offerto gratuitamente a tutti, anche a chi – come me – era un oriundo della provincia, d’estrazione umile e intelligenza media. Tutti ci si poteva pascere a questa mensa – a volerlo fare! – senza doversi accontentare delle briciole per terra, ma consumando il pane bianco e ricco ch’era stato solo “dei signori”. Questo miracolo, proprio, nella storia, di poche società, è – insieme alla sanità pubblica in media eccellente – una delle prerogative più caratterizzanti della Repubblica italiana, ma mi risulta che ci siano ben poche battaglie per perpetuarlo o rivitalizzarlo. Anche quelle che ci sono, non sono fattive e concrete (che so? una campagna per ripristinare il latino alle medie, o una moratoria su tutti quei progetti che distolgono dal cuore autentico della scuola, che è lo studio calmo e serio di cose impegnative e astratte).
 
Un’istruzione di qualità offerta a tutti ce l’avevamo, ma l’abbiamo pian piano buttata alle ortiche brano a brano. Certo, molte cose della “vecchia” scuola, ante anni Sessanta, è bene che siano cambiate e bene abbiamo fatto a disfarcene (che so? le bacchettate sulle nocche, i castighi ginocchioni su scabri tùtoli di granturco, gl’insulti gratuiti, giusto per citare i casi più esecrabili della scuola che fu).
 
Insieme agli aspetti retrivi e non più condivisibili, abbiamo però rinunciato anche a tutto il resto. Ecco che quell’istruzione di qualità, quella tradizione pedagogica fatta di serietà e rigore, che ha avuto la sua ultima, epigonale fioritura negli anni intorno al 2000, ostinatamente l’abbiamo voluta distruggere. Non è luogo comune, è verità. Togliere, semplificare, individualizzare, infantilizzare, ovvero tutto ciò che si è fatto negli ultimi decenni, è un atto consapevole di smantellamento di tale qualità, che altrove si deve pagare cara in college esclusivi (e forse neppure più lì la si ottiene) e che da noi, fino all’altro ieri, si riusciva a elargire e ottenere.
 
Ci sono ancora colleghi che tutto questo – o quasi – lo forniscono anche oggi, a volte a costo di critiche, emarginazione, sofferenza (sanzioni!). Com’è triste un Paese che ha bisogno di màrtiri ed eroi, o che – avendoli – li chiama pazzi, illusi, retrogradi (o “docenti non formati”)!





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Numero 3 - Maggio 2019
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
Comitato di Redazione:
Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Massimo Ammaniti, Giuseppe Boccuto, Giovanni Carosotti, Vito Carlo Castellana, Roberto Casati, Annalisa Corradi, Rosario Cutrupia, Alberto Dainese, Teresa Del Prete, Danilo Falsoni, Marco Morini, Francesco Pallante, Adolfo Scotto di Luzio, Ester Trevisan, Gianfranco Viesti, Massimo Villone.