Servirebbero politiche europee, e non solo nazionali, per rilanciare il settore dell’istruzione e della formazione partendo da coraggiosi investimenti pubblici strutturali. Di tutto ciò la campagna elettorale per le elezioni del Parlamento Europeo non sembra curarsi. Ed è un fatto gravissimo
15 Aprile 2019 | di Fabrizio Reberschegg
La crisi del 2008, nata negli USA dalla bolla speculativa dei subprime, ha colpito duramente le principali economie europee rallentando il processo di integrazione e gli obiettivi che erano stati declamati nell’ambito del trattato di Lisbona del 2007, obiettivi peraltro già ampiamente ridimensionati dopo la bocciatura della proposta di Costituzione Europea del 2003. La crisi del welfare, innescatasi nelle economie dei paesi membri dopo il 2008, ha ricondotto il ruolo dell’UE a stanza di compensazione degli interessi nazionali all’interno di un quadro di riferimento economico legato alla dottrina del pareggio di bilancio (principio introdotto in Italia addirittura a livello Costituzionale nel 2012 dal governo Monti). Ci si è così allontanati progressivamente dagli ideali del manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli lasciando alla sfera del potere economico e finanziario la gestione vera delle politiche dell’UE. Nel campo dell’istruzione, l’UE dal 2006 è riuscita solo a proporre/imporre la logica delle competenze (skills) che lasciava inalterata la frammentazione dei sistemi nazionali di formazione senza prevedere politiche europee e ad appiattirsi sulle EQF (quadro europeo delle qualifiche) finalizzato alla semplice spendibilità dei diplomi e delle lauree nel mercato del lavoro.
In tale contesto le problematiche relative all’istruzione e alla ricerca sono state ridotte ad una serie di obiettivi da conseguire in senso più tecnocratico che culturale. Si pensi agli obiettivi strategici dichiarati da raggiungere entro il 2010: una crescita basata sulla conoscenza come fattore di ricchezza, il coinvolgimento dei cittadini in una società partecipativa (l’acquisizione di nuove competenze, l’accento sulla creatività e l’innovazione, lo sviluppo dell’imprenditorialità e la possibilità di cambiare facilmente lavoro) in mondo che offrirà più occupazione; un’economia competitiva, interconnessa e più verde. Per l’istruzione gli obiettivi dettagliati erano quelli di ridurre il tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10% e di portare almeno il 40% delle persone di età compresa tra 30 e 34 anni a ottenere un diploma d’istruzione superiore, l’aumento dei laureati in matematica, scienze e tecnologia (aumento almeno del 15% e nel contempo diminuzione dello squilibrio fra sessi); l’aumento dei giovani che completano gli studi secondari superiori ( almeno l’85% della popolazione ventiduenne); la diminuzione della percentuale dei quindicenni con scarsa capacità di lettura (almeno del 20% rispetto al 2000); l’aumento della media europea di partecipazione ad iniziative di lifelong learning (almeno fino al 12% della popolazione adulta in età lavorativa 25/64 anni).
Di fronte alla oggettiva mancanza del raggiungimento degli obiettivi di Lisbona, l’UE è intervenuta in più occasioni per tarare progressivamente le politiche sulla formazione e l’istruzione fino a ridefinire le priorità per il periodo 2016-2020 con la relazione congiunta dei ministri dell’Istruzione nel novembre 2015.
Le sei priorità per tale periodo dovevano essere:
1- lo sviluppo di capacità e competenze di alta qualità per l’occupabilità, l’innovazione, la cittadinanza attiva e il benessere (ad esempio, la creatività, lo spirito di iniziativa e il pensiero critico);
2- l’istruzione inclusiva (che contempli la crescente diversità degli studenti), l’uguaglianza, non discriminazione e promozione delle competenze civiche (ad esempio, la comprensione reciproca e i valori democratici);
3- l’istruzione e formazione aperta e innovativa, pienamente inserita nell’era digitale,
4- un forte sostegno agli educatori (per esempio un migliore processo di selezione e formazione, nonché lo sviluppo professionale continuo),
5- trasparenza e riconoscimento delle competenze e delle qualifiche per facilitare l’apprendimento e la mobilità del lavoro (ad esempio mediante il quadro europeo di riferimento per la garanzia della qualità ).
6- investimenti sostenibili per favorire l’efficienza dei sistemi di istruzione e formazione.
Lasciamo ai lettori le conclusioni sul raggiungimento effettivo degli obiettivi della politica dell’UE, difficile negare tuttavia che siamo ancora nell’ambito di puri principi programmatici, i quali però hanno avuto effetti spesso contraddittori nelle riforme scolastiche della nazioni dell’UE. Si pensi alla Buona Scuola (legge 107/15) e alle riforme prospettate dagli ultimi governi in Francia e Spagna per non parlare delle riforme scolastiche in paesi come l’Ungheria e la Polonia con caratteristiche apertamente antiliberali. Ogni stato dell’UE interpreta ormai liberamente i generici obiettivi dell’UE all’interno di logiche nazionalistiche in cui la competitività del sistema economico nazionale prevale sui principi dell’Unione. In un quadro frammentato in cui i sistemi scolastici nazionali sono impermeabili ad una visione unitaria europea nella formazione e istruzione (si pensi alle diversità dei percorsi scolastici nei singoli paesi, alla incongruità oggettiva delle conoscenze e competenze in uscita dopo la scuola superiore, ecc.), il Consiglio dell’Unione Europea fin dal 2014 si è posto il problema della formazione dei docenti e della potenziale penuria di docenti preparati e competenti nei sistemi scolastici dei paesi dell’UE. Ma si è dimenticato che spesso la crisi delle vocazioni all’insegnamento di qualità discende da politiche di bassi stipendi, di aumenti dei carichi di lavoro di natura burocratico-aziendale e, soprattutto, dalla perdita continua della autorevolezza del ruolo del docente nel contesto delle enormi trasformazioni della società e dell’economia attuali. Solo alcuni esempi citiamo: il fenomeno strutturale della diminuzione del tempo di lavoro necessario derivato dall’introduzione delle nuove tecnologie; la destrutturazione del mercato del lavoro imperniato oggi sulla discontinuità e sulla precarietà delle occupazioni; la perdita di valori condivisi concernenti i concetti di cittadinanza, di responsabilità soggettiva e solidale, la paura reale o indotta per l’”invasione” di popoli e culture diversi da quelli autoctoni europei. I docenti europei spesso non sanno quale sia la loro funzione e si trovano ad inseguire stancamente le idee geniali dei governanti di turno (si pensi alle macronate sull’eliminazione delle bocciature, sull’introduzione della settimana supercorta, sulla reintroduzione del dettato e del riassunto, ecc.) senza che nessuno si preoccupi del fatto che le scuole in Europa stanno sfornando sempre di più un esercito di diplomati e laureati con livelli di preparazione, conoscenze e competenze specifiche oggettivamente inferiori al passato. Non è sufficiente che, troppo spesso a livello di sola eccellenza, i nostri sistemi scolastici ed educativi siano ancora capaci di creare una minoranza ampiamente competente nel campo della ricerca e delle professioni, ma è solo una élite che riproduce di fatto una cristallizzazione delle posizioni sociali esistenti. Di fronte alle nuove potenze economiche mondiali (si pensi alla Cina, all’estremo oriente, all’India) dove i sistemi scolastici sono fortemente strutturati e sono capaci di creare una preparazione culturale e professionale decisamente competitiva, l’Europa rischia di perdere la sua millenaria centralità nella cultura, nelle arti e nella innovazione tecnologica. Servirebbero politiche europee, e non solo nazionali, per rilanciare il settore dell’istruzione e della formazione partendo da coraggiosi investimenti pubblici strutturali (non certo i mitici e improduttivi PON) partendo anche dalla riqualificazione dei docenti non tanto come categoria, ma come soggetti per il rilancio delle politiche per un nuovo modello di sviluppo e per una nuova Unione Europea. Di tutto ciò la campagna elettorale per le elezioni del Parlamento Europeo non sembra curarsi. Ed è un fatto gravissimo.
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